Il sismologo Alessandro Amato sui terremoti in Ecuador e Giappone
Posted by fidest press agency su sabato, 23 aprile 2016
Per prepararsi al prossimo forte terremoto che prima o poi colpirà la città di Los Angeles, due anni fa, l’amministrazione comunale ha varato un importante piano per la riduzione del rischio sismico, predisposto dopo un anno di lavoro serrato da un’équipe coordinata dalla sismologa Lucy Jones: sono stati resi noti i 13.500 edifici classificati come più vulnerabili (“soft-stories”), che dovranno essere adeguati alle norme sismiche. Si tratta di edifici degli ’50, ’60 e ’70, i cui proprietari sono stati invitati a partecipare a un convegno lo scorso 7 aprile, e che ora iniziano a ricevere gli ordini di procedere. Avranno due anni per predisporre un progetto di adeguamento e presentarlo al Dipartimento degli Edifici e della Sicurezza; un altro anno e mezzo per ottenere i permessi necessari, e altri sette anni per completare il lavoro di adeguamento antisismico. Geologicamente parlando, dieci anni sono meno di un battito di ciglia, ma per noi italiani, californiani, ecuadoregni, nepalesi che viviamo nelle zone più pericolose del pianeta possono rappresentare il tempo giusto per fare qualcosa di importante per noi e per i nostri figli.
I due terremoti in Giappone ed Ecuador della scorsa settimana hanno mostrato due realtà ben diverse. La città di Kumamoto in Giappone ha ricevuto uno scuotimento fortissimo dal movimento della faglia che si è mossa improvvisamente di qualche metro generando il terremoto di magnitudo 7.0. La vicinanza della faglia alla città nipponica, che ospita oltre 700.000 abitanti, avrebbe potuto produrre danni ben più consistenti, se si fosse stati in presenza di edifici più vulnerabili. I crolli ci sono stati, ma sono stati contenuti, e le vittime sono state poco più di 50 incluse una decina per disturbi successivi al terremoto.Al contrario, il terremoto in Ecuador, sebbene più forte di quello giapponese (magnitudo 7.8), ha interessato un numero di cittadini molto inferiore (103000 nell’area di VIII grado MMI contro i 773000 del Giappone), ma con conseguenze molto più gravi (v. tabella). I morti accertati sono al momento 525, con 1700 persone ancora disperse (al 20 aprile 2016).
E in Italia come siamo messi? Male, in qualche caso malissimo. La maggior parte dei nostri edifici sono stati costruiti prima dell’approvazione delle norme antisismiche, o in barba a esse. E molti ritengono che sia impossibile fare qualcosa per ridurre il rischio. È davvero così? No, io non lo credo. Sicuramente esistono le conoscenze e la tecnica per costruire bene e per aumentare la resistenza degli edifici vulnerabili. Abbiamo ingegneri sismici tra i migliori al mondo. Si dice che però, purtroppo, manchino le risorse. Anche questa affermazione va controbattuta. Nel capitolo finale di Sotto i nostri piedi si discute proprio questo aspetto del problema, ricordando che tutti noi contribuiamo in maniera significativa a far fluire nelle casse dello Stato qualche miliardo di euro ogni anno per i terremoti che hanno colpito l’Italia dal 1968 (terremoto del Belice) in poi, compreso il terremoto emiliano del 2012. Come? Semplicemente facendo rifornimento di benzina. Delle varie accise sui carburanti, circa dodici centesimi al litro sono destinati al costo dei terremoti. Se si fanno i conti di quanta benzina e gasolio consumiamo per i trasporti, si vede che sono un mucchio di soldi. Qualcuno si chiederà a questo punto se tutti questi soldi vengano reinvestiti in misure di riduzione del rischio sismico. Non voglio rovinare la sorpresa, ma credo che tutti indovineranno la risposta.
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