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Quotidiano di informazione – Anno 36 n° 113

Archive for 30 luglio 2018

Carenza di organici nelle forze di polizia

Posted by fidest press agency su lunedì, 30 luglio 2018

Tanto l’apprezzamento del Sindacato Autonomo di Polizia (Sap) in seguito all’audizione del Ministro dell’Interno Matteo Salvini, davanti alle Commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato. «Ancora una volta abbiamo avuto modo di constatare che il Ministro dell’Interno, quando parla di sicurezza, parla la lingua del Sap – dichiara il Segretario Generale Stefano Paoloni -. Il Ministro ha parlato di superamento del piano di assunzione quinquennale e di investimenti sulle Forze dell’Ordine, tutti argomenti che, da sempre, sono oggetto delle nostre battaglie»
Dopo la riforma Madia e i relativi tagli fatti passare come “razionalizzazione”, si è registrata una carenza di organico pari a 50 mila uomini di cui solo 20 mila nella Polizia di Stato, considerando anche l’età media dei poliziotti intorno ai 47 anni e i prossimi avviati verso il pensionamento.«Lo sblocco del turnover è un passo fondamentale per incrementare l’organico e scongiurare il collasso operativo di alcune questure e commissariati che disperatamente chiedono rinforzi. Le intenzioni del Ministro – prosegue Paoloni – sono quelle di garantire maggiore presenza delle forze dell’ordine sul territorio e, dunque, maggiore sicurezza, così come stabilito nel contratto di Governo al puto 23, che con coerenza l’esecutivo sta continuando a perseguire. A nostro avviso – conclude – il grande piano di assunzioni straordinario annunciato da Salvini è il primo passo fondamentale, per una nuova Polizia. Quella che il Sap ha sempre voluto».

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Esercito, “Strade Sicure”: 150 militari chiedono alla Difesa condizioni di lavoro più “umane”

Posted by fidest press agency su lunedì, 30 luglio 2018

Con un atto di intimazione inviato al ministro della Difesa e al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito italiano, 150 militari dell’Esercito, tramite gli avvocati Giorgio Carta e Chiara Lo Mastro, hanno chiesto il rispetto del Testo unico sulla sicurezza sul lavoro, applicabile anche all’amministrazione militare per effetto del D.P.R. 15 marzo 2010, n. 90. E’ quanto riferisce in un articolo GrNet.it, il sito web su Sicurezza e Difesa.
I militari che partecipano all’operazione “Strade Sicure” devono attenersi a consegne di servizio che – si legge nell’atto di intimazione – «impongono ai militari impegnati nella missione di restare in piedi ed all’esterno del mezzo per almeno sei ore consecutive – senza la possibilità di sedersi nemmeno per una breve pausa – e di indossare un pesante armamento, un munizionamento ed un equipaggiamento aventi un peso complessivo di circa 20 chilogrammi, con notevole carico sulla colonna vertebrale dei militari, che difatti sempre più spesso stanno lamentando danni fisici di una certa entità».«Le condizioni atmosferiche avverse, poi, oscillanti tra le temperature estremamente alte della stagione estiva e quelle rigide dell’inverno, sono parimenti idonee a menomare la salute dei miei assistiti – scrive l’avvocato Carta – giacché sono costretti dalle consegne di servizio a svolgere l’intero turno in piedi e fuori dal mezzo, sia sotto la pioggia che sotto il sole», salvo essere autorizzati uno alla volta, in caso di condizioni meteorologiche particolari.
«La disagevole situazione descritta e le rigide regole stabilite dalle consegne di servizio hanno determinato – ricordano i legali dei soldati – la sottoposizione a processo penale militare di numerosi militari, rei anche solo di essere saliti sul mezzo militare per una breve pausa necessaria al recupero psico-fisico delle energie o per ripararsi dal freddo notturno».
Tuttavia – si ricorda nell’atto di intimazione – «la sentenza n. 4509 dell’8 febbraio 2011 della Corte di Cassazione, I Sezione penale, ha riconosciuto che una sosta di breve durata, anche nell’ambiente militare, riveste “finalità di ristoro e, in genere, di rafforzamento delle proprie energie psico-fisiche utili al migliore espletamento del servizio”» e, sempre per tale ragione, anche il Tribunale militare di Roma, II Sezione, ha assolto un militare dal reato di “concorso in violata consegna aggravata”, accusato di aver “svincolato” il fucile dalla cinghia «pur mantenendola ben salda – rileva il tribunale – e comunque all’interno della vettura…. per la necessità fisica di riposare la schiena e quindi di ridurre il carico di peso gravante sul corpo». Purtroppo, in altri casi, i tribunali militari hanno condannato militari rei soltanto di essere montati sul mezzo durante la notte per ripararsi dal freddo e che, a seguito, del processo, sono stati posti in congedo, dopo aver prestato servizio per anni. Le disposizioni di legge – scrive ancora l’avvocato Giorgio Carta – affidano «la responsabilità della salute e sicurezza del personale compete anche ai dirigenti centrali o territoriali delle aree tecnico-operativa, tecnico-amministrativa e tecnico-industriale». Per le ragioni illustrate (e per tantissime altre richiamate dall’atto di intimazione) i militari impegnati nell’operazione “Strade Sicure” invocano l’applicazione di specifiche disposizioni del Testo unico sulla sicurezza del lavoro. Soprattutto, chiedono che, in base alla normativa evocata, essi vengano impiegati in tale gravosa missione per non più di 120 giorni all’anno.
«Confido che il Ministro Trenta voglia prendere a cuore quanto segnalato e che intenda la nostra iniziativa quale atto di collaborazione e di suggerimento finalizzato a migliorare insieme le condizioni di lavoro e di salute dei cittadini in uniforme», ha riferito l’avvocato Carta. (GRNET.IT)

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Perché nessuno si indigna per i disastri ecologici provocati da Hamas?

Posted by fidest press agency su lunedì, 30 luglio 2018

Se c’è un valore condiviso nella nostra società, a l di là delle divergenze politiche sociali, nazionali, è quello della natura. Tutti, più o meno, ci rendiamo conto che l’aumento del numero degli esseri umani e delle risorse che consumano mette a rischio il pianeta, che in particolare fauna e flora sono a rischio e che se non stiamo attenti rischiamo di lasciare ai nostri discendenti una Terra difficile da abitare e più povera di quella che abbiamo ricevuto. E’ necessario curare l’ambiente, combattere la desertificazione, ripiantare i boschi, proteggere gli animali, evitare di inquinare con fumi, rifiuti, residui industriali.Fin qui, credo, tutti saranno d’accordo, anche se magari sulla gravità dei mali e sui rimedi da adottare ci può essere discussione. Ma allora saremo anche tutti d’accordo che bisogna lodare i comportamenti ecologici dei vari stati e movimenti e condannare quelli che invece abusano delle risorse, le sprecano o le rovinano per scopi politici. Per esempio, bisogna guardare a Israele e a Hamas.Israele è un miracolo ecologico. Tutte le testimonianze e le immagini che ci sono rimaste dicono che la terra di Israele, prima della costituzione dei primi rinnovati insediamenti ebraici, un secolo e mezzo fa, era uno dei luoghi più desolati della costa mediterranea: paludoso e malarico sulla costa, desertico all’interno, quasi totalmente privo di alberi e di popolazione. Oggi chi è stato anche solo per un breve viaggio turistico in Israele ne riporta il sentimento di un territorio verde, con campi ordinati e boschi ombrosi, pieno di verde anche dove la natura è di per sé molto aspra, come nella valle del Giordano o nel Negev. In una regione devastata da una carestia che dura ormai da sei anni, Israele ne ha limitato moltissimo i danni, grazie all’uso di tecnologie innovative come i grandi desalinizzatori, l’irrigazione a goccia, il riciclo intensivo delle acque usate. Bisogna aggiungere che Israele ha tanta attenzione e amore per la sua fauna selvatica, da essere diventato la tappa più importante del Mediterraneo per gli uccelli migratori e da aver recuperato una popolazione di animali selvatici del Medio Oriente altrove quasi distrutta, come antilopi, avvoltoi, caprioli e cani del deserto, che non è difficile vedere anche nei parchi delle grandi città.
Hamas invece dell’ecologia non ha alcuna cura, anzi evidentemente la disprezza. Nonostante tutti gli aiuti internazionali ricevuti ha scelto di non istallare depuratori e di lasciare che le acque di scarico di Gaza fluiscano senza controllo in mare, ottenendo con ciò non solo di inquinare alcune delle più belle spiagge israeliane del sud, ma anche il suo territorio. Di recente, per orchestrare la lugubre scenografia degli assalti di massa che ha organizzato contro la frontiera israeliana, ha fatto bruciare migliaia di pneumatici provocando un inquinamento inaudito dell’aria, del suolo e della falda, infinitamente peggiore di quello delle zone industriali più arretrate. Sempre in questa occasione, ha scoperto una nuova arma terroristica e cioè gli aquiloni e i palloni a elio con carichi incendiari che hanno messo a fuoco migliaia di ettari di campi e di riserve naturali in Israele. L’odio per la natura è arrivato al punto di usare come veicolo incendiario un povero falco selvatico, condannato così a morte atroce. (Ugo Volli)

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Non si nasce per soffrire

Posted by fidest press agency su lunedì, 30 luglio 2018

Non si nasce per piegarsi al male. Non si nasce per restare vittima dei negrieri. Si nasce per guardare la vita alla luce del bene e della serenità. Si nasce per sorridere e non per piangere.
Perché quel Dio che tutto vede e sa in anticipo le nostre fortune e le nostre disperazioni non deve permetterci di considerarlo crudele e spietato verso i più deboli da chi vive e non per dirci che ben altri destini ci attendono dopo la morte. Il mondo è vita e bisogna viverla serenamente. Non ha senso il contrario. Nessuno, nemmeno Dio, può pretendere una sofferenza senza limiti, una disperazione senza speranza, oggi in terra e non altrove.
Scrive Aldo Vendemmiati “In prima persona” (Urbaniana Università Press): “La domanda etica nasce inevitabilmente nel cuore di ogni essere umano che si sveglia alla vita.” “Essa è certamente una domanda sul dovere: che cosa debbo? E, soprattutto perché debbo? Ma è principalmente una domanda nel senso della vita.”
Questo “senso della vita” che il Vendemmiati vede “altrove” io lo avverto ora che respiro, ora che guardo, ora che sento.
D’altra parte come si può avere la capacità di amare il bene e avere la capacità di operare per il bene, se questo bene è violato dal proprio simile e reso servile al proprio personale interesse?
Può essere l’uomo virtuoso veramente felice anche nella cattiva sorte? Non è un pretendere troppo se il nostro destino è segnato dalle sfortune di chi vive accanto nella miseria e nel tormento?
Come si può amare veramente ed essere felici non tanto per la mancanza di piaceri quanto dei bisogni primari e vedere bambini che muoiono di fame e di sete, madri disperate e padri resi schiavi?
Insieme sono ridotti a chiedere un passaggio su una barca, incapace d’affrontare il mare aperto e l’inclemenza del tempo, e pur disperati si affidano a essa pur di uscire da quel tunnel degli orrori che altri esseri umani hanno riservato loro.
E’ questa la dura condizione che pure rendiamo incomprensibile come per dire a chi vive nelle tribolazioni che la vera felicità non può essere corrotta dall’esterno. D’altra parte come si più essere liberi se la libertà è condizionata sempre più dal “possesso” e la giustizia dall’arbitrio e la speranza condannata alla rinuncia senza appello di un futuro dove non esiste una meta perché manca un cammino comune. Questo è un destino che accomuna chi emigra e l’autoctono perché nelle grandi e piccole circostanze siamo tutti dei viatores che guardano il mondo come una terra dove il passo non si ferma al primo incrocio ma va oltre con la speranza di aver imboccato la strada giusta.
Chi scrive fu un emigrante. Andai lontano alla ricerca non dell’Eldorado ma di un posto, dove trovare da che vivere sia pure modestamente. Fu per la circostanza l’Australia. Una terra lontana ma che mi apparve ricca di opportunità lavorative.
Dopo qualche anno ritornai in patria deluso e umiliato perché fui considerato un “diverso” da chi viveva sul posto e mi considerava un perdente.
Così oggi si sentono gli emigranti che giungono nel mio paese, ma non hanno la stessa possibilità di far ritorno alla loro terra d’origine perché essa resta ingrata e ostile per i suoi figli.
In un altro mio libro scrissi, in proposito, una nota ancora più amara ricordando la mia esperienza quando riuscii a trovare un lavoro in Italia ma nel nord del Paese, io che sono meridionale.
Ritrovai le stesse venature razziste così come le riscontrai in Australia e fu una circostanza che ancora mi amareggia. Questo seme maligno che produce la gramigna ha un solo scopo soffocare la spiga di grano, ostacolare il suo cammino che lo porta gradualmente verso il desco di chi alla fine spezza un tozzo di pane e lo condivide con il suo simile. Sta a noi, prima di pretenderlo dagli altri, fare del bene il suo frutto. (Riccardo Alfonso)

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Il nostro destino non è la vita ma la morte

Posted by fidest press agency su lunedì, 30 luglio 2018

Come ne “La livella” di Totò il benestante al pari dell’accattone hanno un comune fato. Non li salva la ricchezza o la povertà, la salute o la malattia.
Il momento giunge inevitabile per tutti. Noi, vivendo, ci prepariamo alla morte. Questa e non quella è il nostro futuro. E’ il punto di partenza e non la fine di un percorso.
Questa consapevolezza è mancata. Ci ha portati, quindi, ad affrontare la vita in un modo diverso e ad ambire beni che sono estranei alla nostra natura, alla nostra morale interiore.
Credevo di non aver capito la ragione che spinse uomini ricchi, intelligenti, fortunati, amati, ad abbandonare tutto per vivere in povertà, per allontanarsi dal mondo. A diventare dei migranti.
Credevo. Ora so. La molla che li spinse a questi gesti estremi mi è finalmente chiara. Essi e non noi siamo nel giusto.
L’ho scoperto camminando lungo i sentieri impervi di montagna che s’inerpicano lungo la dorsale delle montagne.
L’ho scoperto leggendo negli occhi dell’avido la bramosia offertagli dal denaro.
L’ho scoperto riconoscendo nella vita i suoi valori autentici nell’amore e nella fede.
L’ho scoperto, infine tra i campi coltivati, tra gli alberi gravidi di frutti, tra i fiori e le piantine appena sorgenti dal terreno. E’ una luce che non illumina, ma abbaglia. E’ fatta per occhi che riescono a guardare in profondità, che non temono i contrasti.
E’ una piccola storia che ci appartiene, ma è tanto piccola che è dato solo di intravederla indistinta e incolore. Così è il cammino tracciato da chi è nato in una terra improvvida, da una donna povera, da una famiglia rassegnata alla sofferenza e alla rinuncia.
Quel figlio così disperato e infelice un certo momento della sua vita si risveglia e si domanda e ci chiede perché? E noi cosa possiamo rispondergli?
Non possiamo dirgli che siamo tutti sul Golgota piagati nel costato e condannati a una sola certezza: quella di morire senza un sorriso, senza una carezza.
Non possiamo dirglielo finché uno solo dei suoi simili si sottrae alla sofferenza e gode i piaceri della vita.
Non possiamo dirglielo se prendono un bastone per appoggiarsi nel momento della fatica estrema mentre chi è nato come lui, ma in una terra diversa, con un colore della pelle diversa, lo beffeggia e si prende gioco del suo tormento.
Non possiamo dirglielo nel momento in cui allunga la mano per un obolo o per un tozzo di pane mentre c’è chi prospera nel superfluo.
Non possiamo dirglielo perché il mondo è diviso tra chi è e chi ha e l’avidità di questi ultimi non ha limiti.
Questo è oggi l’emigrante che muore avendo nelle pupille stampate la speranza di una vita migliore.
Questo è l’emigrante che sogna il suo eldorado per sottrarsi alle miserie che lo stanno consumando come se fosse un cero giunto oramai al suo moccolo.
Questa è tutta quella parte dell’umanità, e i suoi numeri sono grandi, che vede il mondo tingersi di rosso per il sangue innocente che esce dalle sue piaghe, dal suo cuore in subbuglio e dalla sua mente che lo disperde nella disperazione e nella rinuncia.
Così il mondo vuole farsi riconoscere e non ha senso di certo consolare gli angosciati con la moneta falsa di quella fede che vuole convincerlo che più soffre in terra più grande sarà il premio oltre la vita. (Riccardo Alfonso)

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Le guerre calmierano i surplus di popolazione?

Posted by fidest press agency su lunedì, 30 luglio 2018

Le guerre come quelle mondiali del XX secolo con la loro dose di milioni di morti, hanno in qualche modo calmierato i surplus di popolazione? A prescindere dal fatto che l’opzione militare, è decisamente disumanizzante se la consideriamo la scelta giusta per un livellamento della presenza umana sulla terra, va anche detto in tutta la storia dell’umanità ci siamo ritrovati con un recupero sorprendente della natività.
Dobbiamo, semmai, partire da un’altra riflessione nel senso che non possiamo sostenere un diritto alla vita quando non siamo in grado d’assicurare a questa stessa vita di vivere.
Sembra oramai giunto il tempo per pensare seriamente a un contenimento della popolazione mondiale e al modo più indolore per ottenerlo poiché l’indice delle nascite continua a essere superiore alle morti e il differenziale è in crescita esponenziale in specie in alcune regioni del mondo. D’altra parte le attuali storture sono chiaramente destabilizzate e tendono a esasperare una situazione per se già critica.
Oggi le materie prime si possono acquistare vendendo ai paesi sottosviluppati armamenti e macchinari obsoleti. Il dominio si può esercitare con lo sfruttamento del lavoro, con salari da fame, con la distruzione dello stato sociale, con le logiche del consumismo, con il traffico degli organi umani e via di questo passo.
Un giorno, però, tutto questo finirà e noi resteremo indifesi davanti ai cinici e agli sfruttatori che, avendo raschiato il fondo del barile, non trovano di meglio che risvegliare in tutti noi, rinfocolandolo, l’odio per i nostri simili, per il diverso. Un odio viscerale, incontrollabile che fa di ogni uomo un Caino e, l’altro, un Abele.
Sono scenari fantascientifici? Sono simulazioni messe a punto da una mente o malata o troppo fantasiosa? Può darsi, anzi me lo auguro di tutto cuore.
Non credo, tuttavia, di essere tanto lontano dalla realtà se già ora mi guardo intorno con l’occhio distaccato dell’osservatore e non dello speranzoso che vede rosa o del pessimista che vede nero. Le tracce più evidenti emergono dai tanti disequilibri sociali, razzismi e conflitti locali sempre più cruenti e caricati, per giunta, da alte dosi di fanatismo.
Ora con la crescita senza controllo delle popolazioni c’è da chiedersi se lo stile di vita dell’uomo primitivo sia stato ecologicamente equilibrato, con la sua strategia di rapporto con l’ambiente, oppure quella strategia non era scritta nei suoi geni, ma era trasmessa culturalmente.
In questo caso è inevitabile che, oggi, possa apparire naturale l’aborto, il controllo delle nascite, l’emarginazione, il genocidio praticato per ragioni religiose, etniche e altro. Il fatto è che ora sappiamo che la natura dell’uomo è fondata nella sua cultura. Significa, a questo punto, che il quesito di base deve essere riformulato, poiché niente è normale oppure che tutto sia naturale. Il problema, in definitiva, è quello di contemperare, pragmaticamente, l’esigenza di fare scelte che abbiano un valore giusto per la sopravvivenza e di associare la qualità della vita con quella d’ordine bioetico e soprattutto di compatibilità ambientale. (Riccardo Alfonso)

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Le correnti migratorie nel mondo tendono a crescere: per ridurle occorre un nuovo modo per gestirle

Posted by fidest press agency su lunedì, 30 luglio 2018

Credo che a pochi possa sfuggire l’aspetto destabilizzante conseguente alle vaste correnti migratorie sia per i paesi che le determinano, sia per quelli che le ricevono e i conseguenti effetti distorsivi legati alla salute degli stessi soggetti più deboli appartenenti alle varie comunità.
D’altra parte pensare solo al contingente, serve a poco. Occorre una svolta radicale nel modo di interfacciarsi con questa cruda realtà.
Se, per contro, ciò accade, è perché è molto forte la consapevolezza che ci stiamo avviando verso una cultura del rinnovamento senza averne assunte responsabilmente le conseguenze che possono derivarne. Non voglio, nello stesso tempo, che le molte teorizzazioni sul concetto di produzione e produttività, di progresso e di benessere restino lettera morta per il 90% della popolazione mondiale. Che senso avrebbe?
Oggi sembriamo sconvolti e preoccupati per i consistenti e caotici flussi immigratori come se nel passato non ve ne fossero stati di altri. Non è questo il punto.
La verità è che allora li sopportammo poiché esisteva una diversa logica di produrre e di lavorare. Per crescere, economicamente parlando, avevamo un crescente bisogno di manodopera.
Allora la sottraemmo all’agricoltura e ai paesi che registravano un basso livello d’industrializza-zione e non fu un grosso danno. Il fenomeno fu anche interno. Ho ricordato l’esodo della manodopera dal Sud al nord dell’Italia. Una circostanza, beninteso, comune a molti altri paesi del mondo in specie se i loro territori avevano sviluppato, da una parte, un’industrializzazione più avanzata e, dall’altra, erano rimasti arretrati.
Ora cosa sta cambiando perché l’immigrazione da un bene tende a trasformarsi in un maleficio, sia pure esorcizzato da tante pretestuose giustificazioni che lasciano il tempo che trovano? Tutto questo ha, ovviamente, una spiegazione. Abbiamo imboccato una via che ci porta verso esperienze dissimili, verso una cultura diversa. Siamo arrivati a una svolta, ma ancora non ne abbiamo acquistata tutta intera la consapevolezza.
Qui sta il punto del nostro dramma esistenziale. D’altra parte i segnali sono inequivocabili. Per millenni abbiamo fondato la ragione della nostra crescita nel numero degli abitanti di una regione e di un continente. Più eravamo e più creavamo ricchezza. Niente di più realistico del detto evangelico “crescete e prolificate”. Oggi le cose stanno mutando. L’essere umano incomincia a rendersi conto che il benessere può venire solo se la torta terrestre è divisa in pochi.
Lo dobbiamo perché i danni arrecati non ci permettono un’agricoltura capace di nutrire tante bocche, perché l’equilibrio naturale è saltato per i veleni che abbiamo immesso nell’atmosfera, per i ritmi che abbiamo imposto al nostro vivere quotidiano.
Possiamo, ad esempio, immaginare, da qui a qualche anno, una circolazione automobilistica, nelle aree urbane, di un 20% inferiore all’attuale? Assolutamente no.
Direi, semmai, che è più pensabile un suo incremento, anche se modesto. Eppure tutti noi sappiamo che questa circostanza, congiunta a molte altre, è diventata insostenibile.
Il mio timore è che un bel giorno ci sarà chi si chiederà come sia possibile salvare il salvabile e se non sia il caso di eliminare drasticamente le esuberanze esistenti partendo da quelle ammalorate. E quali potrebbero essere se non il popolo degli umani?
Incominciamo dai vecchi che non producono più, dai disoccupati che sono la parte più ecce-dentaria del mondo, dai malati terminali e via dicendo. (Riccardo Alfonso)

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L’assistenza sanitaria gioca un ruolo primario per la salute delle madri e dei loro figli

Posted by fidest press agency su lunedì, 30 luglio 2018

A livello globale e nei singoli paesi, è in atto una serie d’iniziative volta a migliorare l’accesso alle cure della salute materna e infantile, come ispirato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite che ha ampiamente approvato la Strategia Globale per la Salute delle Donne e dei Bambini che si propone di salvare diciotto milioni di vite entro il 2020 attraverso un approccio del “continuum di cure”. Come parte di questa strategia, il focus su settori specifici è:
• Un Piano globale d’azione per i vaccini che lavora verso l’accesso universale all’immunizzazione entro il 2020. La vaccinazione è una delle azioni più efficaci gestite dal paese e supportate a livello mondiale, perché oggi evita da due a tre milioni di morti ogni anno in tutte le fasce d’età a causa di difterite, tetano, pertosse (tosse convulsa) e morbillo. Nel 2017 si stima che l’83% (111 milioni) di bambini in tutto il mondo hanno ricevuto tre dosi contro difterite-tetano-pertosse (DTP3).
• Circa 176 paesi hanno firmato “A Promise Renewed” – un richiamo all’azione promosso dai Governi di Etiopia, India e Stati Uniti, insieme con l’UNICEF per un impegno globale per evitare la morte dei bambini per cause che possono essere facilmente prevenute.
• La Commissione delle Nazioni Unite sui Prodotti salvavita per donne e bambini è aiutare i paesi a migliorare l’accesso ai farmaci essenziali come antibiotici di base e sali per la reidratazione orale.
• All’inizio del 2017, l’OMS e l’UNICEF hanno raccolto altri partner per la creazione di un nuovo Piano globale d’azione per la polmonite e la diarrea, che si propone di porre fine, entro il 2025, alle morti evitabili dei bambini sotto i cinque anni dovute a queste due principali cause. Il piano promuove pratiche conosciute per proteggere i bambini dalle malattie, come la creazione di un ambiente domestico sano e di misure per garantire che ogni bambino abbia accesso a collaudate e adeguate misure di prevenzione e trattamento.
• Allo stesso modo, i partner stanno lavorando su Every Newborn: un piano d’azione globale per porre fine alle morti evitabili. L’obiettivo è di lanciare questo piano d’azione globale per i neonati e fornire indicazioni strategiche per prevenire e gestire le più comuni cause di mortalità neonatale, che rappresentano circa il 44 per cento di tutte le mortalità sotto i cinque anni.
• L’UNICEF, l’OMS e il Gruppo della Banca Mondiale supportano il movimento globale Scaling Up Nutrition (SUN) nella collaborazione con i paesi sulla realizzazione di programmi su vasta scala per rispondere a un’alimentazione inadeguata con un focus particolare sull’empowerment delle donne. (Riccardo Alfonso)

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Gli emigranti minorenni sono un problema nel problema se consideriamo la mortalità infantile

Posted by fidest press agency su lunedì, 30 luglio 2018

Dentro questa tragedia, infatti, s’inserisce drammaticamente un’altra che la stessa marea migratoria avrebbe voluto in qualche modo esorcizzare: Nel 2012, circa 6,6 milioni di bambini in tutto il mondo – 18.000 di bambini ogni giorno – sono morti prima di aver compiuto cinque anni. Da allora ad oggi il loro numero tende a crescere. È quanto dichiara il nuovo rapporto presentato da UNICEF, Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Banca Mondiale e Dipartimento degli Affari sociali ed Economici delle Nazioni Unite- Divisione Popolazione.
“La maggior parte, di questi decessi, può essere evitata, utilizzando misure semplici che molti paesi hanno già messo in atto – ma ciò di cui abbiamo bisogno è che dobbiamo agire con molta più urgenza”.
Le principali cause di morte dei bambini sotto i cinque anni sono polmonite, nascite premature, asfissia neonatale, diarrea e malaria. A livello mondiale, circa il 45% dei decessi sotto i cinque anni sono legati alla malnutrizione. Circa la metà dei decessi sotto i cinque anni avvengono solo in cinque paesi: Cina, Repubblica Democratica del Congo, India, Nigeria e Pakistan. L’India (22%) e la Nigeria (13%) insieme contano oltre un terzo di tutte le morti di bambini sotto dei cinque anni. I neonati sono particolarmente a rischio. “La cura della madre e del bambino, nelle prime ventiquattro ore di vita dalla nascita, è fondamentale per la salute e il benessere di entrambi” dice Margaret Chan, Direttore Generale dell’OMS. “La metà di tutte le morti neonatali avvengono entro il primo giorno”. Le vite della maggior parte di questi bambini potrebbero essere salvate se essi avessero accesso ad alcuni servizi di assistenza sanitaria di base, quella durante e dopo il parto; farmaci a basso costo come gli antibiotici, pratiche come il contatto pelle a pelle tra madre e neonato e l’esclusivo allattamento al seno per i primi sei mesi di vita.
Mentre a livello globale il tasso medio annuale di riduzione della mortalità dei bambini sotto i cinque anni è cresciuto dall’1,2% l’anno per il periodo 1990-1995 al 3,9% per il periodo 2005-2012 e al 4% dal 2012 ad oggi, esso rimane insufficiente per raggiungere l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio numero quattro, che si propone di ridurre il tasso di mortalità sotto i cinque anni di due terzi tra il 1990 e il 2018. “I continui investimenti da parte dei paesi per rafforzare i sistemi sanitari sono essenziali per garantire che tutte le madri e i bambini possano disporre delle cure accessibili e di qualità di cui hanno bisogno per vivere una vita sana e produttiva.” L’Africa subsahariana, in particolare, deve affrontare sfide importanti come regione con i più alti tassi di mortalità infantile nel mondo. Con un tasso di novantotto morti ogni 1.000 nati, un bambino nato nell’Africa subsahariana corre un rischio sedici volte maggiore di morire prima del suo quinto compleanno di un bambino nato in un paese ad alto reddito. Tuttavia, l’Africa subsahariana ha registrato una notevole accelerazione nel suo progresso, con un tasso annuale di riduzione delle morti cresciute dallo 0,8% nel periodo 1990-1995 al 4,1% nel 2005-2012. Salvare i propri figli dalla fame e dalle malattie diventa, quindi, un motivo più che valido per emigrare e se i familiari dei minori si rendono conto che non hanno i mezzi per trasferirsi preferiscono affidare la loro prole ad altri nella speranza che almeno loro possono avere qualche chance in più per sopravvivere. (Riccardo Alfonso)

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“E’ necessario guardare a migrazione e sviluppo con un approccio più globale”

Posted by fidest press agency su lunedì, 30 luglio 2018

Lo ha affermato il Direttore Generale dell’OIM, William Lacy Swing. “Contrariamente a quanto si creda la migrazione non è solo un fenomeno Sud-Nord.” “Meno della metà dei migranti in tutto il mondo, infatti, si sposta da paesi in via di sviluppo verso paesi sviluppati.” I nuovi dati presentati nel rapporto mostrano che i migranti adulti che si muovono da Sud a Nord rappresentano solo il 40% del totale mondiale.
Circa il 33% dei migranti si muove tra paesi del Sud, il 22% tra paesi del Nord e il 5% dal Nord al Sud del mondo. Nel complesso, la migrazione migliora il benessere soprattutto per chi si trasferisce al Nord. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, sono i migranti che si spostano da Nord a Nord (tra paesi ad alto reddito), piuttosto che da Sud a Nord, a segnalare maggiori benefici. I migranti Sud-Nord risultano infatti meno propensi a sentirsi soddisfatti della loro vita rispetto a chi è nato nei paesi di destinazione. Le persone che migrano da Nord a Sud hanno esperienze contrastanti. Mentre, in un ambiente relativamente più economico, riescono a ottenere di più con il loro denaro, essi tendono ad avere un minor numero di contatti sociali e hanno meno probabilità di avere qualcuno su cui contare per un aiuto. Chi si sposta da Sud a Nord valuta invece la sua vita in modo simile, o leggermente peggiore, rispetto alle persone con un profilo analogo rimaste nel loro paese d’origine.
La migrazione Sud-Sud tra paesi a basso o medio reddito è in gran parte una questione di sopravvivenza, porta a pochi miglioramenti e i migranti continuano a dover affrontare grandi difficoltà, alla stessa stregua della popolazione locale. Di fatto, le condizioni di vita dei migranti nel Sud spesso sono uguali o peggiori rispetto a quelle che avrebbero sperimentato in patria se non avessero deciso di migrare. Molti affermano, infatti, di vivere peggio, di avere difficoltà nell’ottenere un alloggio adeguato, e di essere insoddisfatti delle loro condizioni di salute.
La maggioranza tende anche a essere pessimista riguardo al proprio futuro. Il rapporto fornisce anche una serie di nuove informazioni concernenti il rapporto tra migrazione e sviluppo. Ad esempio, anche se circa i due terzi dei migranti internazionali sono originari del Sud, le persone provenienti da paesi del Nord sono più propense a migrare. In effetti, le persone emigrate costituiscono tra il 3,6 % e il 5,2 % della popolazione del Nord, mentre nel Sud, gli emigrati rappresentano circa il 3% della popolazione. Questo rilevamento è impor-tante perché spesso si presume che le persone migrino a causa di una mancanza di sviluppo e che la migrazione diminuisca quando un paese diventa più sviluppato. I nuovi risultati suggeriscono inoltre che solo una minoranza di migranti invia rimesse. In realtà, solo l’8% dei migranti adulti nel Sud, e il 27% nel Nord, riferiscono di inviare un “aiuto finanziario” a dei parenti che vivono in un altro paese. Un altro luogo comune sfatato dal rapporto riguarda il livello di disoccupazione tra i migranti. Il tasso di disoccupazione globale per i migranti è di circa il 13%, contro l’8% delle popolazioni locali. E’ stato inoltre osservato siano ben sette milioni i migranti in movimento da Nord a Sud.
Si tratta, per esempio, di cittadini provenienti dagli Stati Uniti che si trasferiscono in Messico e in Sud Africa, ma anche di tedeschi che si spostano in Turchia e di portoghesi che vanno in Brasile. Questo sembra essere un trend migratorio emergente, che spinge a ripensare vecchie nozioni di migrazione e sviluppo, giacché sempre più persone si spostano da paesi sviluppati ai paesi meno sviluppati.
Il Rapporto Mondiale sulle Migrazioni 2013 pone infine l’accento sulla necessità di comprendere come il benessere dei migranti vari in base al luogo e all’esperienza personale. Questa variazione si nota, ad esempio, nell’effetto della migrazione sul benessere di diverse categorie di migranti, tra cui lavoratori migranti, studenti, migranti irregolari, migranti rientrati nel paese d’origine, o migranti in difficoltà a causa di conflitti o disastri ambientali. (Riccardo Alfonso)

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Politiche migratorie

Posted by fidest press agency su lunedì, 30 luglio 2018

Il dipartimento di economia e affari sociali dell’Onu ha identificato 232 milioni migranti pari al 3.2% della popolazione mondiale, passando da 175 milioni nel 2000 dai 154 milioni del 1990. Dopo 18 anni da questa stima vi è stato un ulteriore incremento intorno al 15%.
Del totale, 136 milioni, si sono stabiliti nelle nazioni sviluppate e novantasei milioni nei paesi in via di sviluppo. I rifugiati, come tali, rappresentano solo il 7% del totale, ossia 15,7 milioni di persone. La maggior parte degli immigrati (74%) è in età in lavorativa (dai 20 ai 64 anni) e il 48% sono donne.
Europa e Asia sono le due principali regioni di migrazione con rispettivamente 72 e 71 milioni di unità. Gli Stati Uniti sono la destinazione preferita, accogliendo quasi 46 milioni persone, tra cui 13 milioni nati in Messico, 2,2 milioni venuti dalla Cina, ed a seguito India e Filippine. Queste cifre riflettono la tradizionale migrazione dai paesi in via di sviluppo ai paesi sviluppati, ma i flussi sud-sud, tuttavia, sono cresciuti notevolmente raggiungendo quasi il pareggio con quelli tradizionali. Nel 2013, 82,3 milioni immigrati nati in paesi del sud si erano stabiliti in altri paesi del sud, mentre 81,9 milioni nati sud sono emigrati verso il nord. Oltre il 51% dei migranti vivono in soli 10 paesi: Stati Uniti (45,8 milioni) Russia (11), Germania (9,8), Arabia Saudita (9.1), Emirati Arabi (7,8) e Regno Unito (7,8). Seguono la Francia con 7,4 milioni, Canada (7.3), Australia (6.5) Spagna (6.5) e Italia (5 milioni). I gruppi più consistenti sono asiatici (70,8 milioni) e latino-americani (53,1 milioni) che costituiscono le due diaspore più importanti: diciannove milioni di asiatici vivono in Europa, 16 nel Nord America e 3 in Oceania, mentre la maggior parte dei latino-americani (26 milioni) vive nel Nord America.
L’Asia è una regione che ha visto l’immigrazione più alta dal 2000, accogliendo altri venti milioni di persone in 13 anni, in particolare a causa della domanda di lavoro nei paesi in rapido sviluppo economico come Malesia, Singapore e il Tailandia.
Tra il 1990 e il 2017, gli Stati Uniti hanno accolto quasi ventisette milioni d’immigrati aggiuntivi gli Emirati Arabi 7 milioni e la Spagna 6 milioni e l’Italia circa cinque milioni.
Sulla base dei risultati di un sondaggio realizzato dall’Istituto Gallup – che ha intervistato più di 25.000 migranti in oltre 150 paesi – il rapporto offre una nuova prospettiva sulla vita dei migranti nel mondo, sia che migrino tra paesi ricchi del Nord del mondo sia che si spostino tra paesi poveri del sud. Il rapporto intende dare risposte a varie domande: la migrazione migliora o no le condizioni di vita? In che misura i migranti sono soddisfatti della loro vita rispetto alla popolazione locale? É più difficile per loro trovare lavoro o avviare un business? E’ più probabile che abbiano problemi di salute? Secondo la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite, migliorare il benessere del singolo è uno dei principali obiettivi dello sviluppo. Ma lo sviluppo è spesso misurato in primo luogo in termini di indicatori economici, come il PIL. Allo stesso modo, il contributo dei migranti allo sviluppo è di solito misurato principalmente in termini di denaro che spediscono a casa, piuttosto che pensando a come la loro vita sia influenzata dalla migrazione. Il Rapporto Mondiale sulle Migrazioni adotta un approccio diverso, e si concentra su sei dimensioni fondamentali del benessere per presentare un quadro unico di benefici e di svantaggi relativi alla migrazione e per indagarne le conseguenze per lo sviluppo umano. (Riccardo Alfonso)

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