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Quotidiano di informazione – Anno 35 n°87

Il capitalismo del XIX secolo visto dai letterati

Posted by fidest press agency su martedì, 27 agosto 2019

Vi è un distinguo da fare, in campo letterario, se ampliamo la visuale al pensiero letterario internazionale. Christopher Caudwell, critico marxista inglese, un secolo dopo Leopardi si ritrovò a teorizzare, con un ragionamento analogo al poeta di Recanati, sullo sviluppo industriale capitalistico. Caudwell riconobbe nel poeta la figura più dotata di abilità personale. Intendendo con ciò affermare che la validità della funzione poetica è nel mettere in luce quei principi della realtà che l’illusione e la propaganda politica tendono a nascondere. Leopardi in ciò si rivela un maestro, un antesignano. Egli analizzò le ragioni per cui viene a formarsi una cultura apologetica degli scrittori del suo tempo che si sono schierati in tutto e per tutto dalla parte delle ideologie borghesi. Marx in seguito la definì: “Apologetica del capitalismo” e votata a presentare il capitalismo come il migliore degli ordinamenti sociali ed economici.
Posso, a questo punto convenire che la confusione dei ruoli è tanta. Per Olindo Guerrini, un poeta minore del tardo Ottocento, le stesse influenze dell’irrazionalismo di Nietzsche, cui gli scrittori dell’epoca spesso danno un significato rivoluzionario, altro non è che l’interpretazione filosofica del regime industriale. Alla fine sono proprio i “borghesi disoccupati” come li definiscono Guerrini e Crispi, che soffrono solo gli svantaggi dello sviluppo capitalistico, a sposare gli interessi del proletariato. Ma la differenza continua ad esserci, e si fa notare. Quando Guerrini aderisce alle iniziative benefiche della borghesia umanitaria finisce per limitare l’invettiva contro i politici corrotti e disonesti che rubano sulla beneficenza. L’equivoco continua al tempo della fondazione del Partito socialista quando le opinioni degli intellettuali sono quelle che la risoluzione del problema operaio passa solo attraverso gli schemi borghesi. In altri termini le cose, nella sostanza, non mutano. Qui parliamo di letterati che hanno aderito al socialismo quale Edmondo De Amicis, Pascoli, Giocosa, Graf, Ada Negri e altri minori. Costoro presentano il socialismo come una scelta degli operai stessi al fine di entrare nella borghesia e nel vivo della politica nazionale. In tal modo la critica al sistema capitalistico si presenta come un’inutile e assurda lotta di classe. A questo riguardo un distinguo va fatto per Edmondo De Amicis. La sua conversione al socialismo lo fa diventare al tempo stesso un illustre esponente della letteratura socialista e il capro espiatorio di tutti gli errori che, a giudizio di Antonio Labriola e dello stesso Engels, il socialismo italiano sta commettendo per eccesso di complicità con la borghesia. Più avanti negli anni ci imbattiamo con i due romanzi storici, I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo di Giovanni Verga. Egli, in queste opere, rappresenta il prodotto ancora informe e incompiuto di una società che ha posto appena le premesse del capitalismo. Verga riespone il rapporto originario fra imprenditori e sfruttati e lo conduce a riconoscere le lotte sociali nella misura e nel valore in cui esse appaiono ai suoi personaggi. Verga avverte in primo luogo la mancanza di protezione che la società borghese può offrire e, più in generale, il costante pericolo cui sono esposti i tentativi di raggiungere la piena espressione dell’individualità.
Sulla stessa lunghezza d’onda si presenta la visione pascaliana di un’Italia “tutta proletaria” per combattere lo sfruttamento europeo, per imporsi al rispetto internazionale, per migliorare le proprie condizioni attraverso la conquista coloniale. Un modo di ragionare che indusse Gramsci a definirlo “un colonialista di programma”. In tutte queste circostanze è mancata, sia pure a tratti, la fedeltà del traduttore. Se gli eroi, in questa fattispecie, furono grandi e silenziosi, non fu altrettanto eloquente chi avrebbe dovuto accendere negli italiani il sacro fuoco dell’amore patrio e dei diritti nel consorzio europeo. Noi abbiamo fatto scempio di quel sentimento e di quella fede per fare in modo che i nostri figli e i figli dei nostri figli, dal giorno dell’unità a oggi e per un domani prossimo venturo, potessero venerare, custodire e rendere qual è, in effetti, la forza e la grandezza di un messaggio tenuto alto e solenne dai nostri vati. Quest’amarezza non è sola dei giorni nostri. Già allora nei suoi scritti Mazzini lasciava trasparire un certo disagio. Egli, infatti, scriveva: “…. Quanto alle cose d’Italia in generale sono nauseato; nauseato della tattica sostituita all’iniziativa e alla moralità; nauseato della passività del popolo italiano, cominciando da noi; nauseato del vedere ripetere da tutti quasi che la turpe, vigliacca vendita di Nizza e Savoia è un fatto compiuto e che il Parlamento deve con dolore ratificarlo, come il Re lo ha con dolore concesso, come Cavour lo concedeva con dolore a Plombiéres, nauseato di tutto e di tutti. Sono canuto, affranto; non vivrò più lungo tempo: lascia, dunque, che non potendo far altro, io affermi almeno la verità”. (Riccardo Alfonso)

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