L’Osservatorio svolge una triplice funzione: di rappresentanza degli studenti ristretti, di monitoraggio periodico delle loro condizioni di studio e, infine, di ricerca, con riferimento all’impatto degli interventi formativi in carcere in termini di qualità della vita detentiva, di tutela e di ripristino di diritti, oltre che di estensione delle possibilità di reinserimento sociale. Le attività dell’Osservatorio includono principalmente l’istituzione di tavoli di lavoro su diverse tematiche (borse di studio, spazi, strumentazione informatica, connessione, tirocini, studenti in regimi detentivi speciali), il mantenimento del dialogo con le figure istituzionali di riferimento (Garante, Regione, Comune, PRAP, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e l’elaborazione di rapporti semestrali. L’Osservatorio si avvale dell’accordo di collaborazione pluriennale con il PRAP – Provveditorato regionale amministrativo penitenziari della Regione Lombardia e del dialogo interistituzionale con gli organi che monitorano la situazione carceraria presso il Comune di Milano e la Regione Lombardia. Ne fanno infatti parte, tra gli altri, oltre alla Statale di Milano, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, il Comune di Milano, la Regione Lombardia, il Garante comunale delle persone private della libertà personale, i rappresentanti del corpo studentesco e di quello docente e una rappresentanza dei tutor universitari attivi nelle carceri sede del PUP e degli studenti ristretti. L’Università Statale di Milano, con tutti i suoi Dipartimenti coinvolti, i 34 corsi universitari frequentati e gli oltre 150 studenti ristretti iscritti, che costituiscono oltre il 15% del totale nazionale, è il primo Ateneo italiano per numero di studenti ristretti iscritti ai propri corsi. Gli istituti penitenziari coinvolti sono di Milano- Opera, Milano-Bollate, Milano S. Vittore, Pavia e, più recentemente, Vigevano, Voghera, Lodi e Monza. Il progetto della Statale di Milano è reso possibile grazie alla presenza di 123 tutor attivi presso i diversi istituti penitenziari. Il loro ruolo risulta fondamentale nella traduzione pratica del diritto allo studio, poiché ovvia alla maggior parte delle limitazioni che caratterizzano la condizione detentiva: supportano infatti gli studenti ristretti in ogni fase del loro percorso accademico, aiutandoli nella costruzione di un metodo di studio efficace, affiancandoli nella preparazione degli esami e occupandosi della gestione dei materiali didattici tra carcere e Biblioteche di Ateneo.
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Primo Osservatorio italiano sul diritto allo studio in carcere
Posted by fidest press agency su martedì, 6 dicembre 2022
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E’ uscito un libro sul carcere
Posted by fidest press agency su giovedì, 27 ottobre 2022
Agnese pellegrini lo ha scritto assieme a un collega, Stefano Natoli, e a Padre Vittorio Trani, da 50 anni cappellano a Regina Coeli. Un dialogo dal carcere e sul carcere, che vuole fare luce sull’aspetto umano dell’esperienza detentiva e sulla necessità di approcciarsi ai temi della pena e dell’esecuzione penale, nel solco tracciato dalla nostra Costituzione. Scopo del libro – conversazione appassionata e appassionante fra padre Vittorio e due giornalisti che svolgono da anni attività di volontariato nel sistema penitenziario – è fare luce sull’aspetto umano dell’esperienza detentiva e sulla necessità, che impegna tutti, nessuno escluso, di approcciarsi ai temi della pena e dell’esecuzione penale, nel solco tracciato dalla nostra Carta Costituzionale. A conclusione del testo sono presenti un “Alfabeto di Padre Vittorio”, parole fondamentali per comprendere questo mondo così “distante”; i discorsi dei Papi (Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Francesco) in visita a Regina Coeli; una poesia di don Primo Mazzolari; due brevi testi sull’inquadramento di legge del cappellano penitenziario e il volontariato penitenziario. Il libro è arricchito dalla Prefazione del card. Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità, e dalla Postfazione di don Antonio Rizzolo.
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La guerra dei suicidi in carcere
Posted by fidest press agency su venerdì, 14 ottobre 2022
Perché si continua a morire in carcere? Nel 2022 già 67 suicidi nelle carceri italiane, probabilmente perché i prigionieri hanno più paura di vivere che di morire. “La donna di 51 anni, detenuta nel carcere bresciano di Verziano, si è uccisa impiccandosi con un lenzuolo legato al collo.” (Corriere della Sera, 9 ottobre 2022) In questi giorni pensavo che i detenuti conducono la vita più “sicura” al mondo, forse anche perché è difficile che facciano un incidente stradale. Eppure i dati dicono che i detenuti si tolgono la vita e muoiono più delle persone libere. Nessuno però dice nulla del fatto che hanno buoni motivi per farlo perché il carcere in Italia non insegna molte cose, ma una cosa la sa fare molto bene, sa “convincerti” a toglierti la vita. I detenuti si domandano perché devono continuare a vivere anziché farla finita con una vita che tanto spesso è un inferno. E ammazzarsi non è affatto una domanda, ma una risposta perché per un detenuto a volte è più importante morire che vivere, per mettere fine allo schifo che ha intorno. Purtroppo spesso in prigione la vita è un lusso che non ti puoi permettere e per smettere di soffrire non puoi fare altro che arrenderti, perché in molti casi nelle nostre “Patrie Galere” vale più la morte che la vita. Spero che un giorno qualcuno finalmente si domandi perché molti detenuti in Italia preferiscono morire piuttosto che vivere. Spesso mi chiedo: ma il suicidio di un detenuto non rientra forse nella legittima difesa? Credo che sotto certi aspetti sia più “normale” e razionale chi si suicida, rispetto a chi continua a vivere nella sofferenza. Uccidersi non è facile, ma vivere nelle patrie galere italiane è ancora più difficile. Per questo nelle carceri italiane si continua a morire. I nostri politici dovrebbero sapere che in carcere si muore in tanti modi: di malattia, di solitudine, di sofferenza, di ottusa burocrazia e d’illegalità. Riuscire a vivere nelle galere italiane è diventato un lusso che alcuni detenuti non si possono permettere. Per questo a volte ammazzarsi diventa una vera e propria necessità. E questa non è una libera scelta, come alcuni cinici potrebbero pensare, ma è legittima difesa contro l’emarginazione e la disperazione. By Carmelo Musumeci
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Allarghiamo gli affetti ristretti dal carcere – Le proposte del Volontariato
Posted by fidest press agency su venerdì, 23 settembre 2022
A cura della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Permettere alle persone detenute di salvare i loro affetti è importante sempre: lo è nella fase iniziale della carcerazione, che è uno dei momenti di particolare fragilità, in cui il rischio suicidi è decisamente alto, lo è poi in quella fase della detenzione in cui la persona detenuta vive nell’attesa di poter accedere ai permessi, e ricostruirsi davvero i legami famigliari e le relazioni sul territorio. Ed è anche un investimento sulla sicurezza, perché solo mantenendo saldi i legami dei detenuti con i loro cari, genitori, figli, coniugi, compagni e compagne, sarà possibile immaginare un reinserimento nella società al termine della pena. L’Ordinamento penitenziario del 1975 è un Ordinamento per molti versi ancora attuale, spesso purtroppo non rispettato, ma forse la parte più invecchiata è proprio quella che riguarda gli affetti. E proprio quella parte non è stata però toccata dai recenti interventi di riforma dell’Ordinamento penitenziario. È vero che nel percorso di reinserimento delle persone detenute sono previste tappe importanti come i permessi premio e le misure di comunità, fondamentali proprio per ricostruire prima di tutto i legami famigliari e le relazioni, ma è altrettanto vero che prima di accedere a questi, che ancora sono benefici e non diritti, le persone spesso trascorrono anni in carcere e dovrebbero cercare di salvare i loro affetti con sole sei ore di colloqui al mese e dieci minuti di telefonata a settimana (questo succedeva prima del Covid, e non deve succedere che si torni a quel regime). Ecco perché riteniamo che l’Ordinamento andava cambiato proprio su questi temi, ma non lo si è ancora fatto. Se si vuole davvero tentare di prevenire almeno qualche suicidio, si deve pensare prima di qualsiasi altra cosa a rafforzare in tutti i modi i rapporti delle persone detenute con le famiglie, e l’unica strada percorribile è, come ha proposto con forza il cappellano del carcere di Busto Arsizio, concedere a TUTTE LE PERSONE DETENUTE di disporre di un cellulare in cella e di poter chiamare liberamente i propri cari. Le forme di controllo ci sono, oggi niente è più controllabile di un telefono cellulare. Quello che è importante è che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria provveda intanto a inviare una nuova circolare, totalmente dedicata a promuovere in tutte le carceri condizioni più favorevoli a mantenere e curare i rapporti delle persone detenute con le loro famiglie.
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Suicidi in carcere
Posted by fidest press agency su venerdì, 19 agosto 2022
Il Coordinamento Carcere Due Palazzi di Padova (v. in calce realtà che aderiscono) esprime profonda preoccupazione per la situazione delle carceri italiane. Il numero impressionante e in continuo aumento di suicidi (uno anche nella Casa di Reclusione di Padova pochi giorni fa) è uno dei sintomi del disagio in cui vive la popolazione detenuta, un disagio profondo, aggravato da due anni e mezzo di pandemia: ricordiamo che il covid ha interrotto/ridotto i contatti con i familiari, interrotto per lunghi mesi le attività scolastiche, culturali, sportive, insomma le relazioni umane. In questi giorni voci autorevoli si sono levate per chiedere interventi concreti e immediati per alleviare la sofferenza e l’angoscia in particolare di quella parte della popolazione detenuta più fragile e priva di speranze per il futuro. Il coordinamento aderisce all’appello ‘Una telefonata ti può salvare la vita’ rivolto da don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla Ministra Cartabia e al Capo del DAP Carlo Renoldi affinché sia concesso il telefono nelle celle, come già avviene in altri paesi dell’Europa. Registriamo tra i detenuti anche una profonda delusione per la mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia. Chiediamo: * liberalizzazione delle telefonate, come possibilità di ritrovare nei legami famigliari la forza di andare avanti nei momenti della disperazione * liberazione anticipata speciale per Covid Come operatori, a titolo diverso attivi nelle carceri, pensiamo che oggi sia assolutamente necessario dare risposte concrete, e subito. Per far rinascere la speranza.
Giustizia: Tra garantisti e giustizialisti. Un excursus storico
La situazione carceraria italiana
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“E’ l’estate dei suicidi in carcere”
Posted by fidest press agency su giovedì, 28 luglio 2022
Con il suicidio di Michael Mangano, 33 anni, che si è tolto la vita nella notte nel carcere di Pavia (avrebbe utilizzato un sacchetto di plastica), il trentottesimo suicidio dall’inizio dell’anno, salgono a nove quelli avvenuti in penitenziari lombardi, (2 a Monza, a Milano San Vittore e a Pavia, 1 rispettivamente a Como, Milano Opera, Sondrio). Ad affermarlo è il segretario generale del S.PP. (Sindacato Polizia Penitenziaria) Aldo Di Giacomo sottolineando che “l’estate si conferma stagione problematica da gestire nelle carceri, mentre si è in attesa dell’avvio del piano di prevenzione della Regione Lombardia che contiene aspetti decisamente importanti come un programma individualizzato di presa in carico congiunta nel quale saranno indicati ulteriori interventi integrati degli operatori sanitari, di sostegno e di sorveglianza, secondo le necessità determinate dalle problematiche rilevate. Significativa, inoltre, la costituzione di uno staff multidisciplinare composto da rappresentanti del personale penitenziario e sanitario. Piuttosto come dimostra l’emergenza suicidi – dice Di Giacomo – si acceleri l’iter attuativo del piano. Come sostengono gli esperti, la pandemia se in generale ha accentuato situazioni di disagio mentale, apprensione ed ansia, ha avuto e continua ad avere ripercussioni ancora più gravi nelle carceri dove – aggiunge Di Giacomo – il personale di sostegno psicologico come quello sanitario in generale ha numeri ridotti e non riesce a far fronte all’assistenza ancor più necessaria negli ultimi due anni di Covid. Come sindacato è da tempo che abbiamo proposto l’istituzione di Sportelli di sostegno psicologico, tanto più contando su almeno 3 mila laureati in psicologia che nel nostro Paese non lavorano con continuità. Come per il personale penitenziario che continua a dare prova di impegno civico è sicuramente utile attivare corsi di formazione ed aggiornamento per essere maggiormente preparati ad affrontare casi di autolesionismo e suicidio, oltre naturalmente a provvedere rapidamente all’atteso potenziamento degli organici”. “Uno Stato che non riesce a garantire la sicurezza del personale e dei detenuti testimonia di aver rinunciato ai suoi doveri civici. L’incapacità – continua Di Giacomo – è ancora più irresponsabile in questa nuova fase di diffusione della pandemia. Una realtà che segna un trend di contagi in forte aumento in questa estate destinato dunque ad avere conseguenze impattanti e ad aggravare la situazione già di eccezionale emergenza della gestione delle carceri. Sminuire o nascondere la verità – aggiunge – può solo portare ad un’ulteriore sottovalutazione e a complicare le problematiche esistenti per la salute della popolazione carceraria e di chi lavora”. Fonte: http://www.sindacatospp.it
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Incontro: Il diritto allo studio in carcere
Posted by fidest press agency su mercoledì, 27 aprile 2022
’Università di Parma 12 maggio 2022. All’incontro, che si svolgerà dalle 13 alle 15, parteciperanno Franco Prina, Presidente della Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli penitenziari (l’organismo della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane dedicato allo studio in carcere), Vincenza Pellegrino, Delegata del Rettore ai rapporti con gli Istituti penitenziari di Parma, Francesca Vianello ed Elton Kalika dell’Università di Padova. L’appuntamento chiuderà la rassegna Tra diritto e società. La questione penitenziaria, un ciclo di sei seminari interdisciplinari su tematiche carcerarie promossi dal Dipartimento di Giurisprudenza, Studî politici e internazionali dell’Università di Parma. Gli incontri sono ideati e organizzati da Fabio Cassibba e Chiara Scivoletto, docenti rispettivamente di Diritto penitenziario e di Criminologia in Ateneo.
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Salute in carcere, poca attenzione al Covid-19
Posted by fidest press agency su sabato, 16 gennaio 2021
“In questa pandemia, in cui si mettono in luce le varie emergenze con le categorie più a rischio, i provvedimenti da assumere con urgenza, le modalità di intervento delle istituzioni sanitarie, c’è un grande assente: la salute nelle carceri”. Lo dichiara il presidente di AssoTutela Michel Emi Maritato che spiega: “Tra le sacrosante vaccinazioni al personale sanitario, a quello docente, ai lavoratori esposti al contatto con il pubblico, agli ospiti e operatori delle Rsa, non sono stati mai citati i detenuti e le guardie carcerarie. Eppure il settore, costituendo una comunità chiusa, con soggetti ospiti per lo più fragili e molti anziani, dovrebbe essere in cima alla lista delle priorità. Così non è e la cosa ci sorprende moltissimo”. Il presidente si sofferma poi sui dati: “La nostra sollecitazione arriva a ragion veduta – incalza – in quanto dalle ultime rilevazioni del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i casi di positività risultano essere 624 in tutta Italia, 587 dei quali asintomatici e 26 i ricoverati mentre tra gli operatori carcerari ci sarebbero 647 agenti contagiati, 64 dei quali sintomatici. Sessantuno i positivi fra il personale amministrativo e dirigenziale penitenziario. Ma quello che ci preoccupa maggiormente è il focolaio attivo nel carcere romano di Rebibbia Nuovo complesso, in cui risultano 23 positivi al coronavirus mentre in tutto il Lazio sarebbero una novantina. Che cosa si intende fare?”, continua Maritato. “Non abbiamo sentito una voce a tutela della salute nei penitenziari, che sono comunque una parte della nostra società, che non può essere esclusa”.
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Covid-19 – Colloqui in carcere fra detenuti e familiari
Posted by fidest press agency su domenica, 15 novembre 2020
Nella recrudescenza del fenomeno pandemico che sta interessano il Globo, il Governo ha emanato con l’ultimo DPCM, una serie di regole e limitazioni, differenziandole sulla base dello stato del contagio nelle regioni italiane. Il DPCM in questione nulla dice – al contrario di come accaduto in passato – in relazione alla possibilità che vengano effettuati i colloqui in carcere fra i detenuti ed i propri familiari. Nelle FAQ il Governo chiarisce che nelle zone rosse sono vietati gli spostamenti per fare visita alle persone detenute in carcere, non essendo giustificati da ragioni di necessità o da motivi di salute. Ma altrettanto vero è che la disposizione riguarda gli spostamenti e non l’effettuazione del colloquio in sé, così che se il singolo si presenta all’ingresso del carcere, pare non vi sia titolo alcuno per il personale penitenziario di vietare l’ingresso e limitare l’effettuazione del colloquio. “Il Si.N.A.P.Pe. chiede all’Amministrazione chiarimenti in merito alle modalità di svolgimento dei colloqui, se da effettuare in modalità fisica o a distanza” dichiara il Dott. Roberto Santini, Segretario Generale del SiNAPPe “Tale confusione rischia di generare una parcellizzazione operativa pericolosa, con conseguenze che potrebbero essere non dissimili dalle devastazioni di marzo. Per questi motivi” ha concluso Santini “si chiariscano con assoluta urgenza se debbano autorizzare i colloqui nelle varie zone di Italia e si disciplinino in maniera dettagliata i conseguenti aspetti operativi”.
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Quanto costa una pena senza redenzione?
Posted by fidest press agency su giovedì, 23 luglio 2020
Il settore penale degli adulti risulta ancora legato più a esigenze custodialistiche che riabilitative. Eppure ci sono tutte le premesse che i nostri padri costituenti non sottacerono. Il discorso fu infatti introdotto nella Costituzione italiana del 1948 (art. 27 terzo comma) asserendo il principio che le pene non possono consistere in un trattamento contrario al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma cosa si deve intendere per rieducazione? Riguarda un processo pedagogico e curativo suscettibile di modificare in senso socialmente adeguato il comportamento del soggetto, tale da rendere favorevole la prognosi per un suo reinserimento nella vita sociale. Passiamo, quindi, da una concezione punitiva e difensiva della pena a una essenzialmente rieducativa. Per i detenuti in attesa di giudizio (di primo grado, appellanti o ricorrenti) l’attività di sostegno è indirizzata a interventi che mirano a preservare i loro interessi umani, culturali e lavorativi. Questo genere di detenuto deve confrontarsi con meccanismi istituzionali che richiedono un suo adattamento alle regole di comportamento.
Nel complesso si può dire che l’osservazione scientifica della personalità che è soggetta a particolari restrizioni può determinare mancanze fisiopsichiche, affettive, educative e sociali che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione. Da tutto questo si evince una situazione carceraria italiana poco edificante con un problema carceri da dover seriamente affrontare, tra leggi e leggine, a volte emanate troppo frettolosamente e sull’impeto di populistiche (e neanche tanto) richieste. Si è, invece, fatta lievitare la popolazione carceraria oltre i limiti della vivibilità, riempiendo le carceri di persone che avrebbero avuto bisogno di essere reintegrate socialmente o espulse (stranieri e tossicodipendenti) e non invece emarginate in un carcere, portando l’Italia a disattendere almeno tre articoli della Dichiarazione Universale dei diritti Umani delle Nazioni Unite, quattro articoli della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea e 2 articoli della Costituzione italiana.
L’attuazione delle misure alternative, la comprensione della loro importanza, quale strumento indispensabile nell’offrire una risposta concreta al fenomeno della dissocialità, si impone oggi, unitamente ad una ridefinizione e a un ripensamento degli istituti penitenziari, quale motivo principale della logica operativa dell’amministrazione penitenziaria. Si è gradualmente compreso che, se fino ad oggi per i reati più gravi non si sia trovato un valido sostituto alla prigione, per tutta una serie di comportamenti criminali minori occorreva attuare dei sistemi meno inutilmente afflittivi, meno costosi e più utili alla rieducazione del reo. Non dimentichiamo che oggi tra oneri diretti e indiretti ogni detenuto costa 160 euro al giorno e, per un trattamento alberghiero, si fa per dire, di pessimo ordine, la spesa è del tutto fuori luogo. Occorre una svolta radicale, da subito per non ritrovarci a dover fare i conti con una scuola di violenza e di violenti e che costoro una volta rimessi in libertà non sapranno fare altro che continuare a percorrere la strada sbagliata non solo per il loro demerito ma anche per il nostro. (Riccardo Alfonso)
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Proposta nuova legge contro droga e telefonini nelle carceri
Posted by fidest press agency su lunedì, 18 Maggio 2020
“Presenterò un’interrogazione parlamentare al ministro della giustizia Alfonso Bonafede affinchè intervenga d’urgenza per potenziare i livelli di sicurezza all’interno delle carceri italiane”. Lo annuncia il Questore della Camera Edmondo Cirielli (FdI), che si schiera al fianco del Sappe dopo l’ennesimo rinvenimento di sostanze stupefacenti, telefonini e denaro nelle carceri di Avellino, Secondigliano e Santa Maria Capua Vetere. “Nonostante le restrizioni legate al Covid-19, i detenuti continuano a farsi arrivare agevolmente la merce attraverso l’invio di pacchi alimentari mantenendo, di fatto, i contatti con l’esterno. Il ministro Bonafede – dichiara Cirielli – dovrebbe svegliarsi ed adottare provvedimenti straordinari per dotare il Corpo della Polizia Penitenziaria – che andrebbe rafforzato subito con lo scorrimento delle graduatorie – dei body scanner per impedire l’introduzione di materiale illecito all’interno delle case circondariali. Inoltre, le stesse andrebbero schermate all’uso dei telefonini per contrastare sul nascere possibili comunicazioni tra i detenuti e l’esterno. In questi anni, invece, i governi tecnici e di larghe intese non hanno fatto nulla. Per questo – aggiunge il deputato di FdI – mi farò promotore di una proposta di legge per punire penalmente coloro che vengono trovati in possesso di cellulari e droga nelle celle. Bisogna dare un segnale forte contro la criminalità, soprattutto dopo la sconcertante scarcerazione dei mafiosi: la ricreazione nelle carceri deve finire”.
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Progetto “Carcere e scuole: educazione alla legalità”
Posted by fidest press agency su sabato, 2 Maggio 2020
È un progetto complesso, che compie 18 anni e ha attraversato tempi difficili in cui nessuno avrebbe scommesso sulla sua sopravvivenza, perché un progetto con al centro le storie delle persone detenute non ha vita facile. Eppure, ce l’abbiamo fatta anche questa volta perché davvero nessuno vuole rinunciare a questo progetto, e dopo alcuni incontri di programmazione con i docenti ci siamo attivati per incontrare gli studenti a distanza. All’inizio avevamo qualche timore, perché veniva a mancare il contatto diretto, così importante quando le persone detenute portano la loro testimonianza, ma abbiamo deciso di provarci in un primo incontro, con due classi dell’Istituto Scarlcerle di Padova. E siamo veramente contenti dei risultati. Utilizzare un mezzo a distanza ci ha tolto la bellezza di leggere sui volti degli studenti l’interesse e l’emozione, ma ci ha permesso di coinvolgere persone che non abitando a Padova non avrebbero potuto partecipare: in quel primo incontro ad esempio abbiamo avuto con noi Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo Sergio Bazzega, ucciso nel 1976 in un conflitto a fuoco con un giovanissimo brigatista negli anni tragici della lotta armata in Italia, quando lui di anni ne aveva poco più di due.“La vittima, in generale, sente di avere il monopolio del dolore”: sono parole di Giorgio Bazzega, che ha per anni convissuto con la rabbia, il rancore, la droga usata come “anestetico”, ma poi ha incontrato sulla sua strada esperienze importanti che lo hanno portato a fare la conoscenza con una idea diversa della giustizia, quella che al male sceglie di non rispondere con altro male.In giorni di scuola strani, quando le lezioni si fanno a distanza e può sembrare un modo meccanico e senza calore umano, accade invece che si riesca ad aprire tanti dialoghi altrettanto “strani”, che mettono insieme persone che dovrebbero essere “nemiche” e invece hanno scelto di parlarsi: vittime, “carnefici”, figli innocenti di genitori detenuti. E così è successo che il 20 aprile, due classi dell’Istituto Scalcerle e poi il 23 moltissime classi del Liceo Curiel hanno “incontrato” in videoconferenza Fiammetta Borsellino, figlia minore del magistrato Paolo Borsellino, ucciso dalla Mafia nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992, e poi Francesca, figlia di un detenuto, ex appartenente alla criminalità organizzata, e ancora due persone che hanno finito di scontare una lunga pena.“Mio padre diceva che il vero cambiamento, la vera lotta alla mafia può essere fatta soltanto con quella rivoluzione morale e culturale che deve necessariamente coinvolgere le nuove generazioni” ha detto Fiammetta, e forse è una rivoluzione anche che una persona come lei, invece di nutrirsi di odio, scelga di rifiutare la vendetta e di privilegiare sempre il dialogo, il confronto, la mediazione.Questi incontri in videoconferenza fanno parte del progetto “Carcere e scuole: educazione alla legalità” che la redazione di Ristretti Orizzonti ha rimodulato arricchendolo, nonostante le difficoltà dell’emergenza, ed è sostenuto dal Comune di Padova e, per la parte in carcere, l’unica però ancora ferma, dalla Casa di reclusione.La richiesta che abbiamo da tempo fatto, e alla quale speriamo di avere finalmente una risposta, è che anche il personale del carcere e i detenuti della redazione interna di Ristretti Orizzonti siano coinvolti in questo progetto, che segna davvero una piccola rivoluzione culturale: l’apertura di un dialogo “permanente” per una idea diversa di Giustizia che coinvolga vittime, persone detenute, loro figli, volontari e operatori.Ma un progetto così innovativo ha bisogno di reinventare anche le parole della comunicazione: e allora il progetto si chiuderà con una videoconferenza in cui Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore, autore tra l’altro del testo “La manutenzione delle parole”, terrà una lezione e dialogherà sul valore delle parole.
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Ci si ammala di Covid-19 anche in carcere
Posted by fidest press agency su domenica, 19 aprile 2020
La lotta all’epidemia va garantita anche nelle carceri, per gli agenti di Polizia penitenziaria e per i detenuti, a vantaggio di tutta la collettività. Il Centro Studi Borgogna fa un’analisi della situazione negli istituti di detenzione e indica possibili misure di contrasto, che si possono riassumere in due concetti chiari e sintetici: favorire un deflusso controllato dagli istituti penitenziari e, per quanto possibile, contenere i nuovi ingressi in carcere. Per il futuro, la crisi può aiutare a risolvere annosi problemi del sistema penitenziario italiano.Secondo il Garante Nazionale dei detenuti, la capienza degli istituti di reclusione è di 51.416 posti, mentre quelli effettivamente disponibili sono circa 47.000; secondo gli ultimi dati diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria i detenuti presenti sono 57.137. Alcuni istituti arrivano a un tasso di affollamento del 190%. Non solo sovraffollamento: le strutture sono fatiscenti e prive di basilari presìdi igienico-sanitari. Molte celle sono senza acqua calda, in buona parte mancano persino la doccia, e spesso prodotti per la pulizia e l’igiene personale.In questo quadro è difficile rispettare le indicazioni del Decreto Cura Italia sul distanziamento sociale. Visto anche quanto accaduto nelle Residenze Sanitarie Assistenziali (Rsa), sarebbero drammatiche le conseguenze di un’eventuale diffusione del virus negli istituti di pena, dove l’unica iniziativa adottata è la sospensione dei colloqui con parenti e l’interruzione di attività sociali e rieducative.Per il resto, nulla è mutato e le infermerie non riescono a rilevare quotidianamente la temperatura corporea come da regolamenti. Una vera “bomba ad orologeria”, dove risulterebbe complicato intercettare con tempestività eventuali focolai di infezione. In totale – secondo dati diffusi dal DAP – i detenuti positivi sono 37, di cui 9 ricoverati presso strutture ospedaliere, mentre sono 8 i detenuti guariti. Molto più numerosi invece i positivi tra gli agenti di polizia penitenziaria: sono 158 su un totale di quasi 38.000. Sedici sono ricoverati, mentre risultano 5 contagi tra il personale dell’Amministrazione Penitenziaria appartenenti al comparto funzioni centrali. Questi dati sono da confrontare con l’esiguo numero di tamponi effettuati: in Lombardia, ad es., poco più di 150 su 8.700 detenuti.Il Governo è intervenuto col D.L. 18/2020 per prorogare sino al 30 giugno la durata dell’istituto della detenzione domiciliare, applicabile se la pena da eseguire non è superiore a 18 mesi (anche nel caso costituisca parte residua di pena maggiore) e se il condannato ha domicilio idoneo a soddisfare le esigenze preventive. Il beneficio è concesso con procedimento semplificato, entro cinque giorni, dal Magistrato di Sorveglianza. A queste misure si aggiunge l’estensione del periodo di licenza del detenuto semilibero oltre il limite previsto dall’Ordinamento Penitenziario. Ma non si applicano ai condannati per reati di particolare pericolosità sociale e a detenuti sanzionati nell’ultimo anno per infrazioni disciplinari o coinvolti nelle sommosse del 7-9 marzo.Se la pena è superiore a sei mesi, il controllo viene effettuato mediante l’uso dei braccialetti elettronici. I dispositivi immediatamente utilizzabili sono meno di 1.000, contro i 5.000 messi a disposizione dal Ministro Buonafede. Per l’attivazione completa della misura sono necessari ulteriori fondi ma soprattutto tempi rapidi che, a oggi invece, sono stimati in almeno tre mesi: troppo lunghi, a confronto della velocità di diffusione del virus.Il CSB propone un piano di svuotamento controllato delle carceri e, ove possibile, il contenimento di nuovi ingressi. Tra le misure deflazionistiche individuate, c’è la scarcerazione immediata – a prescindere dall’utilizzo di braccialetti elettronici – dei detenuti con pene (o residui di pena) non superiori a 2 anni e che non siano stati condannati per i reati già previsti quale causa di esclusione del beneficio dal Decreto.Per la riduzione dei flussi in entrata, è necessario dilatare ancor più il concetto di custodia cautelare in carcere quale extrema ratio, prediligendo misure meno afflittive ma comunque idonee ad assicurare le esigenze cautelari del caso.Tra le proposte anche la sospensione sino al termine dell’emergenza sanitaria dell’emissione di tutti gli ordini di esecuzione per pene fino a quattro anni divenute definitive. Solo lo svuotamento immediato delle carceri, sino ad arrivare al numero di detenuti, almeno, pari alla capienza massima consentita dalla normativa italiana ed europea, permetterebbe di garantire il distanziamento sociale. La crisi può aiutare a migliorare il futuro: auspichiamo che si possa finalmente affrontare il tema della situazione carceraria in Italia, con una progettualità in grado di risolvere il problema strutturale ed endemico del sovraffollamento degli istituti di pena.
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“55 bambini vivono in carcere, di cui 9 a Rebibbia, in tempi di Coronavirus”
Posted by fidest press agency su giovedì, 2 aprile 2020
Roma. “Nella sezione femminile di Rebibbia ci sono 9 bambini che vivono con le mamme detenute. Dopo il caso accertato di medico positivo al Coronavirus si facciano uscire i bambini dal carcere affidandoli a familiari o ai servizi sociali o alle stesse madri agli arresti domiciliari”. È l’appello accorato che Aldo Di Giacomo, il segretario generale del S.PP., Sindacato di Polizia Penitenziaria, ha rivolto al Presidente della Repubblica Mattarella e ai Ministri della Salute Speranza e Giustizia Bonafede.”Una situazione di grande inciviltà che si aggiunge all’autorevole e recente denuncia del Presidente Mattarella sulla “mancanza di dignità in carcere” continua Di Giacomo.Al 29 febbraio scorso erano ben 55 i bambini con meno di tre anni d’età che vivevano in carcere con le loro madri, alle quali non è stata concessa, per decisione del giudice, la possibilità di accedere alle misure alternative dedicate proprio alle detenute madri. Ad essere recluse con i propri figli sono 51 donne, 31 straniere e 20 Italiane.Per Di Giacomo “non possono essere i bambini a pagare la sempre più grave disattenzione dell’Amministrazione Penitenziaria che si manifesta in relazione alla crescente diffusione del contagio Covid-19 in tutte le carceri italiane. Questi bambini devono uscire subito”.”Tra le misure decise per ridurre il numero di detenuti secondo il DL varato dal Governo la condizione dei bambini in carcere con le madri richiede priorità su tutti gli altri casi. È una situazione insostenibile che va rimossa che come S.PP. abbiamo denunciato “in tempi normali” figuriamoci in questi tempi di emergenza sanitaria. I bambini non devono stare in carcere nè tanto meno rischiare la salute”, conclude il segretario dell’S.PP.
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Ancora suicidi in carcere!
Posted by fidest press agency su martedì, 18 febbraio 2020
Tragedia a Bancali, detenuta si toglie la vita. Leggo: “Ennesima tragedia nel carcere sassarese di Bancali. Ieri, venerdì 14 febbraio, si è consumata nel carcere sassarese l’ennesima tragedia. Una detenuta italiana condannata, in espiazione pena, si è tolta la vita impiccandosi nella propria camera detentiva.” Da un’altra parte leggo: ” In Italia i reati diminuiscono e la mafia uccide di meno”. Quest’ultima affermazione mi ha fatto amaramente sorridere perché la mafia è stata superata abbondantemente dallo Stato. Lo Stato italiano e i suoi carceri producono morte e spingono al suicidio più della mafia, della ‘ndrangheta, della camorra e della sacra corona, tutte insieme. Lo Stato può essere orgoglioso di essere riuscito ad essere più cattivo e sanguinario dei delinquenti. Riesce persino a convincere i suoi nemici ad ammazzarsi da soli. In carcere si continua a morire. Forse in questo momento se ne sta suicidando un altro. E nessuno fa nulla. I politici, per consenso elettorale, gridano “Tutti dentro”, fuorché loro ovviamente. La gente onesta preoccupata ad arrivare alla fine del mese e a pagare la rata del mutuo, non ha tempo per preoccuparsi di qualche detenuto o detenuta che si toglie la vita perché stanco di soffrire. Non solo i mafiosi, anche le persone “oneste” non sentono, non vedono e non parlano. I “buoni” difendono solo i “buoni”, i cattivi possono continuare a togliersi la vita in silenzio. In carcere si dovrebbe perdere solo la libertà, non la vita. Se questo accade non è colpa di chi si toglie la vita, ma di chi non l’ha impedito. La morte è l’unica cosa che funziona in carcere. È l’unica possibilità che hai fra quelle mura per non impazzire e per smettere di soffrire. Di questo passo il sovraffollamento sarà risolto dagli stessi detenuti. A chi importa che in uno dei luoghi più controllati e sorvegliati della società, muoiano le persone come mosche? Importa a me e per sapere cosa pensa e cosa fa un detenuto che decide di togliersi la vita leggete queste parole:”Si mise il cappio intorno al collo. Diede un calcio allo sgabello. Sentì una terribile morsache lo stringeva al collo. Si sentì soffocare. Sempre di più… sempre di più. Sentì barcollare il suo corpo da destra a sinistra, come un pendolo. Gli mancò il respiro. Il petto gli sussultò. I muscoli del collo gli si torsero. La bocca si aprì sempre più larga per cercare aria. La vista gli si annebbiò. I colori svanirono. Si sentiva galleggiare nello spazio. Non sentiva più il peso del suo corpo. Si sentiva leggero. Sentiva che la testa era circondata dalle stelle. Era bello morire. Non sentiva dolore. Non stava sentendo più nulla. Stava incominciando a sentirsi morto. Iniziò a vedere in bianco e nero.
Gli sembrò di non vedere né udire più nulla. Si accorse che stava morendo. Si sentì contento da morire. Presto la sua pena sarebbe finita. Non stava neppure soffrendo. Sembrava che stesse morendo un altro al posto suo. Molto presto non avrebbe avuto nulla più da preoccuparsi. Pochi secondi e la sua vita sarebbe finita. La morte era accanto a lui. Lo stava abbracciando. Lei lo guardava con desiderio, persino con amore.” (Carmelo Musumeci)
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Se sei innocente peggio per te, il fine giustifica i mezzi
Posted by fidest press agency su mercoledì, 12 febbraio 2020
Leggo che per alcuni addetti ai lavori, la media di 1.000 innocenti in custodia cautelare ogni anno rappresentano un dato fisiologico. Non sono per nulla d’accordo, neppure quando questo possa servire a lottare contro qualsiasi tipo di criminalità. Senza contare che un innocente in carcere fa danni enormi alla credibilità della giustizia, perché l’innocente ha parenti e amici e tutti poi perdono fiducia nello Stato di Diritto.Nei miei 28 anni di carcere ho conosciuto tanti detenuti colpevoli di essere innocenti, alcuni pure condannati alla pena dell’ergastolo. Uno di questi, condannato per la strage di Via d’Amelio, dove è morto il giudice Borsellino, grazie alle rivelazioni di un altro pentito che lo scagionava, era stato liberato dal carcere di Spoleto, dopo tanti anni. Mi ricordo che prima di uscire era passato a salutarmi. Sedici anni prima eravamo nella stessa stanza del carcere dell’Asinara (l’Isola del Diavolo, come la chiamavamo noi prigionieri) sottoposti al regime di tortura del 41 bis. L’avevo visto entrare che era un ragazzino, con i capelli neri come il carbone e con il sorriso sempre stampato sulle labbra. E mi ricordo che l’ho visto uscire anziano, senza nessun sorriso e con tutti i capelli bianchi. Ricordo che, sapendo dei miei studi universitari di giurisprudenza, un giorno mi aveva chiesto di fargli una richiesta di permesso premio. Dopo un paio di mesi il magistrato di sorveglianza gli aveva risposto in questo modo: “(…) Si dichiara inammissibile la richiesta perché il detenuto è stato condannato per reati esclusi da qualsiasi beneficio penitenziario se non collabora con la giustizia (…).” Lui venne nella mia cella e mi chiese cosa volessero dire quelle parole ed io gli risposi in maniera semplice, come ormai facevo da anni con tutti gli ergastolani ostativi: “Vuole dire che sei destinato a morire in carcere se non metti in cella un altro al posto tuo.”
Dalla sua espressione del viso notai che forse non aveva capito il concetto e allora glielo spiegai ancora meglio:
“Lo vuoi capire o no? Per uscire devi confessare i reati e fare i nomi di altri e farli condannare, solo facendo arrestare loro potrai uscire tu.”Mi ricordo che per un attimo mi aveva guardato con i suoi occhi da lupo bastonato, poi li aveva abbassati e mi rispose:“Carmelo, io per uscire farei qualsiasi cosa, ma sono innocente e quindi come faccio a confessare un reato che non ho mai commesso?”Incredulo gli replicai: “Abbi pazienza, non è che non ti voglio credere, ma in carcere tutti dicono che sono innocenti.” Lui mi guardò per un lungo istante, quasi con vergogna, poi sbottò: “Carmelo, ma io sono innocente davvero.” Rassegnato, scrollai le spalle e gli risposi: “Mi dispiace, ma non posso fare nulla! Purtroppo se sei innocente è peggio per te.” Mi ricordo che quando ci siamo salutati e abbracciati, gli avevo augurato di tentare di rifarsi una vita, quella poca che la giustizia italiana, seguendo il pensiero filosofico che il fine giustifica i mezzi, gli aveva lasciato. (Carmelo Musumeci)
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Il carcere analfabeta
Posted by fidest press agency su venerdì, 7 febbraio 2020
Siamo davvero alla frutta, per giunta, nella disattenzione e nell’indifferenza più colpevole. A tal punto da affermare che in carcere non ci sono innocenti, e se ci sono perche’ scandalizzarsi, in fin dei conti si tratta di eventi critici del tutto sopportabili. Sul carcere i plotoni di esecuzione, pronti a destabilizzare qualsiasi innovazione stanno sempre in agguato, sempre addosso a chi non può reagire.
In galera ci si ammazza, si rimane di lato, piegati contro i muri insanguinati, nel tentativo di colmare il vuoto all’intorno, nella mancanza di riferimenti certi, di valori condivisi, stritolati dall’emarginazione, dalla violenza, dall’illegalità. A chi pensa che in carcere non ci sono persone innocenti, occorre rammentare che invece può finirci chiunque, anche tuo figlio, tua madre, tuo padre, tua sorella, e dunque sarà meglio imparare ad avere rispetto delle persone, e non soltanto dei numeri, delle cose, degli oggetti disordinatamente accatastati all’intorno, occorrenti la propria carriera professionale o politica. Il castigo è una cosa, la punizione anche, la tortura e l’induzione al suicidio è ben altro. Se i maestri, i conduttori, gli esempi sono questi, c’è un carcere privo di autorevolezza, premeditatamente privo di allenatori alla vita, perché dispersi dalla delegittimazione. Le teorie si sprecano nei riguardi di questa terra di nessuno, un dispendio inusitato di tautologie inconcludenti, di dottrine pedagogiche che adottano la cattedra per ri-educare solamente gli altri, negando la necessità di doversi formare e rinnovare a un nuovo “sentire educativo “. Molto più semplice affidarsi al disamore istituzionale che permette fughe in avanti a quanti pensano di aggiustare le cose con la prepotenza degli atteggiamenti saccenti che mettono in “sicurezza “ i pochi rispetto ai tanti inconsapevoli. Il rispetto è la prima forma d’amore tra gli esseri umani, se viene a mancare quello, c’è il rischio di arrogarsi il diritto di giudicare sbrigativamente la presenza altrui, sminuirla, offenderla o degradarla, tutti comportamenti che azzerano sul nascere l’instaurarsi di una relazione significativamente educativa. Il carcere, il suicidio, la recidiva infantilizzante, la rieducazione parola spoglia scarabocchiata sulla carta costituzionale e il più potente agente educativo: il rispetto, trucidato dall’indifferenza di chi invece dovrebbe costitutivamente promuoverlo. Qualcuno ha detto che in carcere non ci sono innocenti, come a voler sputare sulla fossa dei tanti incolpevoli massacrati dall’ingiustizia, proprio per questo penso che non si può insegnare il valore del rispetto continuando a azzoppare la dignità altrui, anche dentro un carcere, dentro una cella. (Vincenzo Andraous)
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Carcere tra pena e redenzione
Posted by fidest press agency su giovedì, 30 gennaio 2020
“L’articolo 27 della Costituzione parla di pena, non di carcere. Noi abbiamo una tradizione centrata sul carcere, ma la Costituzione lascia un campo molto aperto e non è detto che il carcere sia sempre la pena più adeguata” (Presidente della Corte Costituzionale) Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose, pestaggi, abusi, soprusi, sovraffollamento. Eppure nessuno ne parla, (o quasi, ma lo fanno in pochi) nessuno affronta il problema delle molte Guantanamo che ci sono in Italia. Non starebbe a me dire certe cose, io non ho la moralità e l’intelligenza dei nostri governati, politici, intellettuali e uomini di chiesa. Io sono un avanzo di galera, un delinquente, e per giunta pure ergastolano in liberazione condizionale, eppure sento il dovere di farlo lo stesso. Tutti sanno che in Italia il carcere quando va bene è una fabbrica di stupidità umana e quando va male è una fabbrica di ingiustizia. È come se chi andasse all’ospedale morisse, invece di guarire. Il carcere così com’è produce carcere, si nutre di male per produrre altro male e nuovi detenuti. La privazione della libertà non dovrebbe essere considerata l’unica forma di pena, non lo dico io ma lo afferma l’attuale Presidente della Corte Costituzionale. Sì, è vero, il carcere, per qualsiasi classe politica e per qualsiasi governo, porta consensi e voti elettorali, ma sono consensi e voti che grondano sangue, morti e odio. Questa, a mio parere, non è più giustizia, è solo vendetta sociale, di uno Stato ingiusto che guadagna sulla sofferenza, sia delle vittime sia degli autori dei reati. Nei miei 29 anni di carcere ho capito che spesso i “buoni” fanno i criminali per nascondere di non essere buoni mentre i veri criminali fanno i forcaioli per continuare ad essere criminali.Con il decreto di sicurezza bis si è andati a gettare benzina in fondo all’inferno. Ma proprio in fondo, nel girone più basso. Sembra che la società italiana davvero non voglia conoscere la verità sulle sue prigioni. Ai politici italiani non interessa sapere che le carceri scoppiano in tutta Italia, che i detenuti muoiono, che alcuni si tolgono la vita e che altri crepano psicologicamente. I politici, nella stragrande maggioranza, hanno dimenticato che anche i prigionieri sono uomini, e mai una parola o una riga sui 60.000 detenuti abbandonati a se stessi che vivono accatastati uno sopra l’altro. Vivere in questo modo toglie ogni rimorso per quello che si è fatto fuori.I “muri” sono abbastanza alti da permettere di poter far finta di non vedere e udire la disperazione e le grida d’aiuto che vengono da dentro. Sembra che a nessuno importi sapere che nelle carceri italiane non c’è più spazio per vivere; che vivere uno sopra l’altro è una condanna aggiuntiva, una condanna moltiplicata dal punto di vista fisico, psichico, morale e sanitario; che il carcere in Italia non è solo il luogo dove vanno i delinquenti, (non tutti, quelli veri stanno fuori) ma è soprattutto la discarica sociale per gli emarginati, i diseredati, gli emigrati, i tossicodipendenti, i figli di un Dio minore, i ribelli. Basti pensare a Nicoletta Dosio, l’attivista No Tav di 73 anni, condannata a un anno di carcere dal tribunale di Torino, perché accusata insieme ad altri attivisti di aver aperto le sbarre di un casello autostradale durante una manifestazione di protesta. (Carmelo Musumeci)
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Più ergastolo ostativo e carcere duro, più cultura mafiosa
Posted by fidest press agency su martedì, 8 ottobre 2019
“L’ergastolo ostativo è questo: una morte a gocce che annienta la speranza di costruire un futuro, l’idea di poter scegliere una nuova strada – diversa – da intraprendere. La gente lo sa cosa accade dentro il carcere? Mi sono chiesto tante volte. La risposta è no. Ed è per questo che ho cominciato a scrivere, a raccontare cosa accadeva in quelle mura, alte, protette dalle sbarre. La speranza non andrebbe mai negata a nessuno: molti giovani ergastolani, entrati in carcere all’età di 18/19 anni senza poterne più uscire, potrebbero essere salvati”. (“Illuminato Fichera: la libertà nell’era del carcere”, di Daniel Monni e Carmelo Musumeci). Leggo che alcuni europarlamentari italiani hanno dichiarato: “Ci appelliamo al buon senso dei giudici affinché nessun passo venga fatto verso l’abrogazione dell’ergastolo ostativo, una norma che prevede il carcere a vita e il divieto di benefici detentivi per mafiosi, terroristi e stragisti che non abbiano compiuto un percorso di collaborazione”. Rimango sempre meravigliato dell’ignoranza di alcuni politici che invece di lottare per sconfiggere la cultura mafiosa la diffondono e la incrementano. Molti di loro non hanno ancora capito che certi fenomeni criminali non si estirpano solo militarmente ma dando speranza e perdono sociale, per tentare di sconfiggere, o limitare, certi fenomeni criminali. Queste dichiarazioni mi fanno sospettare che la pena dell’ergastolo serva più alla politica per fare finta di lottare contro la mafia che alle vittime delle organizzazioni mafiose. Io penso che nessuna persona dovrebbe essere condannata e maledetta ad essere cattiva e colpevole per sempre, perché la pena dell’ergastolo rende ingiusta e crudele la giustizia più della pena di morte. Credo che una società abbia diritto di difendersi dai membri che non rispettano la legge, ma che sia altrettanto ragionevole che essa non lo debba fare dimostrando di essere peggiore di chi vuole punire. Purtroppo, con l’ergastolo ostativo, questo accade. Penso che il regime di tortura del 41- bis, insieme alle pene che non finiscono mai, non diano risposte costruttive né tanto meno rieducative. Non si può educare una persona tenendola all’inferno per decenni, senza dirle quando finirà la sua pena. Credo che la legalità e la fiducia prima di pretenderle bisogna darle, perché è difficile cambiare e migliorare con uno Stato che ti tortura con il regime del 41-bis e ti dà una pena che non finisci mai da scontare. Posso dire che per me è molto più “doloroso” e rieducativo adesso fare il volontario in una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII (fondata da Don Oreste Benzi) che gli anni passati murato vivo in isolamento totale durante il regime di tortura del 41bis. Trattato in quel modo dalle Istituzioni, mi sentivo innocente del male fatto; ora, invece, che sono trattato con umanità, mi sento più colpevole delle scelte sbagliate che ho fatto nella mia vita. E penso che questo potrebbe accadere anche alla maggioranza dei prigionieri che sono ancora detenuti in quel girone infernale. Sono convinto che anche il peggiore criminale, mafioso o terrorista, potrebbe cambiare con una pena più umana e con un fine pena certo. Non può essere giusto il solo mezzo della collaborazione per uscire dal carcere. Molti non sanno che molti capi delle organizzazioni mafiose hanno collaborato usando la giustizia per uscire dal carcere, mentre altri non possono farlo, o perché sanno poco o per non mettere a rischio i propri congiunti.
Alcuni politici si permettono di parlare a nome delle vittime dei reati, io penso che molte di loro non si accontenterebbero di veder marcire i loro carnefici in carcere ma vorrebbero che uscisse loro il senso di colpa per il male fatto (forse per farli soffrire di più), ma questo può accadere solo se la pena dà una speranza e aiuta a cambiare. (Carmelo Musumeci)
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