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Quotidiano di informazione – Anno 35 n°185

Posts Tagged ‘conseguenze’

“Quali conseguenze cliniche e economiche per il SSN? La situazione della Regione Lazio”

Posted by fidest press agency su lunedì, 17 Maggio 2021

7 milioni di persone in Italia sono colpite da malattie croniche, si stima però che solo la metà assuma i farmaci in modo corretto e fra gli anziani le percentuali superano il 70%. Le cause di mancata o scarsa aderenza ai trattamenti sono molteplici: complessità del trattamento, inconsapevolezza della malattia, follow-up inadeguato, timore di reazioni avverse, decadimento cognitivo e depressione. Tutti aspetti acuiti dall’avanzare dell’età e dalla concomitanza di altre patologie. Per fare il punto nel Lazio, Motore Sanità ha organizzato il Webinar ‘IL VALORE DELL’ADERENZA PER I SISTEMI SANITARI REGIONALI, DAL BISOGNO ALL’AZIONE’. Terzo di 5 appuntamenti, il road show, realizzato grazie al contributo incondizionato del Gruppo Servier in Italia, Sanofi, Iqvia e Intercept, coinvolgerà sul tema dell’aderenza alle cure i principali interlocutori a livello locale: clinici, istituzioni, cittadini e pazienti. Nel Lazio, il 2.4% è costituito da pazienti multi-cronici ad alta complessità, il 12.5% a medio-bassa complessità eil 19.5% ha una sola patologia cronica. Il restante 65.6% non ha patologie croniche ma si stima che il 18.2% abbia almeno due fattori di rischio legati a scorretti stili di vita. Il livello di aderenza terapeutica è molto differente a seconda della condizione clinica e tipologia di farmaco prescritto. “Le malattie croniche non trasmissibili sono ritenute in Italia responsabili del 90% dei decessi totali che si verificano ogni anno: in particolare, le malattie cardiovascolari (41%), i tumori (29%), le malattie respiratorie croniche (5%) e il diabete (4%). Nonostante esistano terapie farmacologiche efficaci per trattare tali condizioni, circa un paziente su due non assume i farmaci in maniera conforme alla prescrizione medica. Nel Lazio è stato sviluppato un modello di stratificazione del rischio della popolazione, MiStraL, che consente alle ASL e ai Distretti di conoscere la distribuzione della popolazione assistita per le diverse patologie croniche ed il grado di aderenza alle linee guida Evidence Based ed ai relativi trattamenti farmacologici. L’analisi è disponibile fino al livello del singolo MMG allo scopo di fornire uno strumento utile ad attivare programmi di audit e feedback finalizzati al miglioramento della qualità delle cure. È da sottolineare che una parte importante della variabilità nell’aderenza alla terapia è attribuibile alla struttura che ha dimesso il paziente, sottolineando l’importanza di porre attenzione al tema della continuità terapeutica ospedale-territorio”, ha spiegato Marina Davoli, Dipartimento di Epidemiologia del SSR Regione Lazio.“L’aderenza alla prescrizione nelle malattie cardiovascolari croniche è fondamentale per un’ottimale efficacia clinica della terapia. La semplificazione degli schemi terapeutici e l’impiego delle terapie di combinazione e le polypill possono essere di enorme aiuto soprattutto nei pazienti con diverse comorbidità che necessitano di assumere numerose compresse ogni giorno”, ha detto Massimo Volpe, Direttore UOC Cardiologia, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università La Sapienza di Roma In sintesi, dall’incontro è emersa la necessità di una call to action, una necessità cioè di azioni concrete per migliorare l’aderenza ai percorsi diagnostici e terapeutici dei pazienti. L’aderenza rappresenta infatti un fattore chiave di successo per la salute pubblica e per la governance del Sistema Sanitario Regionale, una garanzia di efficienza delle cure e della sostenibilità economica. Dai diversi rappresentanti delle istituzioni pubbliche, dai clinici e dalle associazioni di cittadini è arrivata la proposta di sviluppare strumenti di valutazione concreti dell’aderenza per monitorare e correggere i comportamenti che impattano sulla scarsa aderenza e l’implementazione delle tecnologie che facilitano i pazienti a seguire il percorso di cura. La proposta dell’inserimento di un indicatore sintetico di aderenza nel nuovo sistema di garanzia può rappresentare una opportunità di valore e di indirizzo per tutti gli attori chiave.

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Le conseguenze del pessimismo sul disturbo bipolare

Posted by fidest press agency su lunedì, 16 novembre 2020

Lo studio dell’Università di Parma è stato pubblicato su eLife studio. “Un deficit nell’apprendere informazioni positive predice la ricaduta in pazienti affetti da disturbo bipolare”: questo il titolo della ricerca condotta da Paolo Ossola (primo autore) e Carlo Marchesi, rispettivamente ricercatore e docente di Psichiatria al Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Ateneo, da Tali Sharot, docente di Neuroscienze cognitive al Dipartimento di Psicologia Sperimentale dell’University College London e da Neil Garrett, ricercatore al Dipartimento di Psicologia Sperimentale dell’Università di Oxford, i cui risultati potranno fornire un utile strumento ai clinici per capire quando il paziente avrà un nuovo episodio della malattia e intervenire tempestivamente.Il disturbo bipolare è caratterizzato dal susseguirsi di episodi di espansione (mania) e depressione, intervallati da fasi asintomatiche definite eutimia. Periodi più brevi di eutimia si associano ad una maggior disabilità, ad un maggior rischio di disoccupazione, ricoveri ospedalieri e rischio suicidario. Tuttavia, gli strumenti a disposizione dei clinici finora si sono dimostrati insufficienti nel predire quando un paziente affetto da disturbo bipolare avrà un nuovo episodio.Partendo dal fatto che i soggetti affetti da depressione tendono a dare più peso alle informazioni negative, alimentando una visione pessimistica del futuro che di conseguenza peggiora i sintomi, con questo studio si è voluto capire se il paziente con disturbo bipolare mostrasse un pattern (ovvero un modello) specifico nel modo in cui apprende dalle informazioni positive e negative e se questa modalità lo rendesse più vulnerabile ad una ricaduta.Il gruppo di ricerca ha testato 36 persone affette da disturbo bipolare con un compito al computer e poi ha monitorato il loro umore a cadenza pressoché mensile per 5 anni con l’obiettivo di valutare l’eventuale comparsa di sintomi suggestivi di un nuovo episodio. Nell’esperimento al computer ai partecipanti venivano mostrati 40 eventi di vita avversi quali perdere il portafoglio o avere la carta di credito clonata. Veniva quindi chiesto quanto fosse probabile che questo evento succedesse a loro.In un secondo momento ai partecipanti veniva mostrata la probabilità reale che questo evento accada nella popolazione generale. Così facendo i soggetti a volte ricevevano notizie negative (per esempio se la probabilità reale di perdere il portafoglio era maggiore di quanto pensassero) ed altre ricevevano notizie positive (per esempio se la probabilità di avere la carta di credito clonata era minore di quanto si aspettassero). Alla fine di questa sessione veniva nuovamente chiesto di valutare la probabilità che questo evento accadesse a loro.Le analisi hanno mostrato che i soggetti che cambiano maggiormente le loro credenze in risposta a informazioni positive rispetto a quelle negative, e che quindi avevano una maggior tendenza ottimistica, rimanevano in eutimia più a lungo. Questo era vero sia per ricadute maniacali che depressive e l’associazione rimaneva anche considerando altri fattori come l’età, la terapia psicofarmacologica e la durata di malattia.

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“Presidenziali americane: quali (reali) conseguenze per i mercati”

Posted by fidest press agency su sabato, 17 ottobre 2020

A cura di Colin Moore, Global Chief Investment Officer di Columbia Threadneedle Investments. Le elezioni presidenziali statunitensi sono sempre accompagnate da tensioni, ma l’edizione di quest’anno si annuncia particolarmente controversa. La spaccatura politica ha raggiunto livelli estremi e le differenze tra Donald Trump e Joe Biden a livello di approccio, personalità e comportamento non potrebbero essere più marcate. Con l’avvicinarsi delle urne, la retorica accesa rischia di esacerbare l’incertezza e l’apprensione degli investitori. La reazione dei mercati alla notizia della positività del presidente Trump al test sul Covid-19 ha del resto dato prova di questo clima di nervosismo.Ma quali sono le reali implicazioni delle elezioni per l’economia, i mercati e gli investitori? A mio parere, le elezioni provocano molta volatilità e apprensione prima del loro svolgimento, ma una volta passate il loro impatto sull’economia e sui mercati finanziari è esiguo. Gran parte di questa volatilità temporanea è causata dalle politiche e dai programmi promossi dai candidati in campagna elettorale ma che poi raramente vengono implementati. L’andamento dell’economia e dei mercati sul lungo periodo dipende da ciò che accade veramente; pertanto, una singola elezione è quasi irrilevante per le nostre prospettive di lungo termine.Questo perché il cambio di amministrazione si traduce di rado in grossi cambiamenti nel funzionamento dell’economia statunitense, anche quando da un’amministrazione conservatrice si passa a una liberale o viceversa. Gli investitori temevano più un cambiamento radicale quando candidati come Elizabeth Warren o Bernie Sanders sembravano guidare le primarie dei Democratici (facciamo notare che non sappiamo ancora quale ruolo politico potranno avere in futuro). In alcuni ambiti importanti, le differenze tra i due principali partiti sono minime.Per esempio, l’idea secondo cui in materia fiscale i repubblicani sarebbero conservatori e i democratici molto generosi è infondata: entrambi spendono senza misura. C’è ovviamente una differenza nelle fonti di tassazione e nell’allocazione delle spese, ma a mio avviso la somma totale di denaro iniettata nell’economia è sostanzialmente la stessa.In termini di performance complessiva dei mercati, questi hanno evidenziato un buon andamento sia sotto presidenti repubblicani che democratici. In realtà, dall’amministrazione Truman all’indomani della seconda guerra mondiale, i mercati hanno registrato rendimenti negativi soltanto durante i mandati di Richard Nixon e George W. Bush. Tuttavia, durante queste amministrazioni l’andamento dei mercati non è dipeso tanto dalla politica economica quanto piuttosto, nel primo caso, dallo scandalo Watergate dei primi anni ’70 e, nel secondo, dai terribili eventi dell’11 settembre 2001.Quest’anno, però, c’è da mettere in conto anche l’eventualità di un ritardo nella proclamazione del vincitore o di una contestazione del risultato. Se uno dei contendenti dovesse vincere con un ampio margine, riteniamo però poco probabile un’impugnazione dell’esito elettorale. È importante distinguere le difficoltà legate al conteggio dei voti o all’inclusione di alcuni voti per corrispondenza dal netto rifiuto di cedere il potere o riconoscere la sconfitta. La prima opzione ci sembra alquanto plausibile, in quanto la certificazione del risultato potrebbe in effetti essere ritardata da una serie di questioni giuridiche, creando un periodo di incertezza. I prezzi delle opzioni su indici che giungono a scadenza dopo le elezioni mostrano che gli investitori azionari si aspettano un aumento della volatilità a causa di queste incognite. Si tratta di uno scenario tutt’altro che ideale, certo, ma non senza precedenti, ed esistono dispositivi costituzionali in caso di risultati inconcludenti.Tutto questo per dire che esistono delle soluzioni per i problemi anticipati da alcuni, e quando in passato i risultati sono stati ritardati o contestati, siamo sempre riusciti a superare l’impasse senza grossi sconvolgimenti politici (o economici).Se da una parte riteniamo che le elezioni non incideranno sull’andamento generale dei mercati, dall’altro riteniamo quasi inevitabile qualche incertezza sul breve termine, e taluni settori e talune società potrebbero risentirne. Inoltre, ci sono degli aspetti a cui gli investitori dovrebbero secondo noi prestare attenzione, nonché alcune azioni da intraprendere. Se sarà Biden a vincere, è importante analizzare attentamente il suo programma fiscale, al centro della sua agenda politica. Biden intende rivedere le agevolazioni fiscali accordate dall’amministrazione Trump, modificare l’imposta sul reddito al di là di un certo livello e tassare le plusvalenze alla stessa aliquota dell’importo sul reddito; ciò provocherà probabilmente un’intensa attività di trading a fini fiscali a ridosso del voto. Più si è convinti della vittoria di Biden, più ci si dovrebbe preparare a realizzare plusvalenze nel 2020 piuttosto che nel 2021, quando la fiscalità potrebbe essere più elevata. A seconda delle regole, potrebbe essere più ragionevole riportare le perdite al 2021 piuttosto che compensarle automaticamente con i guadagni nel 2020.

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È italiano il più grande studio al mondo sulle conseguenze del virus

Posted by fidest press agency su martedì, 13 ottobre 2020

L’Italia è su un crinale sottile che non può essere oltrepassato, se non esponendo a gravi rischi la vita di oltre 33mila persone che, ogni anno, nel nostro Paese ricevono una diagnosi di tumore del sangue. Uno studio tutto italiano, promosso dalla Società Italiana di Ematologia (SIE) e pubblicato sul numero di ottobre di “The Lancet Hematology”, ha evidenziato un altissimo tasso di mortalità, pari al 37%, nei pazienti ematologici contagiati dal Covid-19 nel periodo da febbraio a maggio 2020. Una percentuale 2,4 volte superiore rispetto a quella della popolazione generale che ha contratto il virus e ben 41,3 volte maggiore rispetto a quella dei malati ematologici osservata nello stesso periodo dello scorso anno, cioè in epoca pre-Covid. Si tratta del più grande studio al mondo che ha analizzato le caratteristiche cliniche e i fattori di rischio associati al Covid-19 in persone colpite da malattie del sangue maligne: sono stati coinvolti 536 pazienti di 67 centri. La ricerca è stata presentata oggi in una conferenza stampa a Milano promossa da SIE. “Il 70% dei cittadini colpiti da tumore del sangue guarisce – afferma il Prof. Paolo Corradini, Presidente SIE e Direttore Ematologia Istituto Nazionale Tumori di Milano -. Un risultato molto importante, raggiunto grazie a terapie sempre più efficaci. Dobbiamo continuare a curare questi pazienti, anche durante la pandemia. I trattamenti non possono essere interrotti. Lo studio, infatti, dimostra che uno dei principali fattori di rischio di morte, in caso di contagio da Covid-19, è proprio la fase avanzata della patologia ematologica. L’immunodepressione provocata dalla malattia che interessa il midollo, l’organo che produce le difese immunitarie, espone i pazienti a maggior rischio di morte, se contagiati dal Covid-19. Anche a marzo e aprile, nel periodo più critico della pandemia, i nostri centri hanno continuato a curare con regolarità i pazienti, raccomandando il rispetto delle regole fondamentali come l’uso della mascherina per i familiari e il tampone per ogni paziente prima del ricovero”. “Oggi, però – continua il prof. Corradini -, stiamo assistendo al rischio reale che tutto possa essere vanificato dal comportamento poco responsabile di molti cittadini. Troppi, soprattutto giovani, non indossano la mascherina e non osservano la distanza minima di almeno un metro dalle altre persone. Il nostro Paese confina, ad esempio, con la Francia dove purtroppo, a causa dell’altissimo numero di contagi, stanno già riducendo i posti letto per terapie salvavita, come i trapianti di midollo osseo e le CAR-T, in previsione di una seconda grave ondata del virus. Dobbiamo utilizzare tutti gli strumenti e sensibilizzare i cittadini perché questo non avvenga anche in Italia, ma abbiamo poco tempo. Ed è corretto imporre l’obbligo di utilizzo della mascherina anche all’aperto”.La terapia cellulare CAR-T è una forma innovativa di immunoterapia, che utilizza le cellule del sistema immunitario (linfociti T): queste ultime vengono prelevate dal paziente, ingegnerizzate in laboratorio e addestrate a riconoscere e combattere con più forza il tumore, per essere poi reinfuse nel paziente. Sono indicate nel trattamento dei linfomi avanzati e aggressivi negli adulti e della leucemia linfoblastica acuta nei bambini. Inoltre, sono in corso sperimentazioni in altre patologie come il mieloma multiplo. I trapianti allogenici, cioè da donatore, sono indicati per le leucemie acute, le mielodisplasie e i linfomi. “La terapia CAR-T è eseguibile solo in ospedali dotati di unità di trapianto di midollo osseo da donatore – spiega il Prof. Fabio Ciceri, Primario Unità di Ematologia e Trapianto di Midollo Osseo IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e Presidente GITMO (Gruppo Italiano per il Trapianto di Midollo Osseo) -. Le due attività coincidono, perché i requisiti organizzativi e strutturali sono sovrapponibili. In Italia, durante la fase acuta della pandemia, i trapianti di midollo sono proseguiti regolarmente, pur con notevoli difficoltà logistiche. Ogni anno, nel nostro Paese, vengono effettuati circa 1.800 trapianti di midollo osseo da donatore. A oggi, rispetto allo stesso periodo del 2019, c’è stata una diminuzione davvero irrisoria, pari a circa l’8%. Il merito va al grandissimo sforzo degli operatori sanitari, del Registro donatori di midollo e dei centri, che hanno continuato a lavorare a pieno regime. Ad esempio, all’Ospedale San Raffaele, dove portiamo a termine circa 100 trapianti allogenici all’anno, finora abbiamo eseguito lo stesso numero di trapianti registrati a ottobre 2019, ma i medici che hanno lavorato a marzo, aprile e maggio erano meno della metà dello staff ordinario, perché contagiati dal virus o destinati a reparti Covid. Ecco perché oggi, a maggior ragione, dobbiamo continuare a proteggere e rendere possibile questa attività. L’Italia, finora, non è stata toccata dal problema della riduzione dei posti letto per trapianti di midollo e terapie CAR-T, a differenza di quanto sta avvenendo nelle ultime settimane a Parigi. Ma la situazione può aggravarsi in poco tempo. Nella pianificazione della riorganizzazione ospedaliera, le Istituzioni e le direzioni generali e sanitarie devono porre come cardine la preservazione e il proseguimento di questa attività”.Tra i tumori del sangue più frequenti vi sono i linfomi (13.182 nuovi casi di linfoma non Hodgkin e 2.151 di linfoma di Hodgkin, stimati in Italia nel 2020), le leucemie (7.967) e il mieloma multiplo (5.759). “Nello studio retrospettivo pubblicato su ‘The Lancet Hematology’ sono stati considerati non solo i tumori del sangue ma anche altre malattie ematologiche maligne, come le sindromi mielodisplastiche – sottolinea il Prof. Francesco Passamonti, Ordinario di Ematologia all’Università dell’Insubria di Varese e Direttore Ematologia ASST Sette Laghi di Varese -. Il periodo considerato va dal 25 febbraio al 18 maggio 2020. Il tempo mediano di ospedalizzazione è stato molto breve, pari a 16 giorni, 20 per i sopravvissuti e 11 per i morti. Il 18% ha potuto accedere alle terapie intensive. Su 536 pazienti con malattie ematologiche e contagiati dal Covid-19, 198, cioè il 37%, sono deceduti. Una percentuale altissima. Inoltre, abbiamo analizzato un altro parametro, cioè il tasso di mortalità standardizzato, che indica il rapporto fra la mortalità del malato ematologico con Covid rispetto a quella della popolazione generale italiana colpita dal virus. È risultato 2,4 volte superiore, per arrivare a 3,72 volte maggiore nei pazienti ematologici under 70. Questo dato è molto importante, perché i pazienti più giovani sono i candidati ideali per il trapianto allogenico e le terapie CAR-T. E la leucemia mieloide acuta e il linfoma non Hodgkin sono le patologie che pongono più a rischio la vita dei pazienti, se contagiati”. Lo studio è stato promosso da SIE, in collaborazione con FIL (Fondazione Italiana Linfomi), SEIFEM (Sorveglianza Epidemiologica Infezioni nelle Emopatie) e SIES (Società Italiana Ematologia Sperimentale).

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“Le conseguenze del futuro”

Posted by fidest press agency su giovedì, 14 marzo 2019

Milano venerdì 15 marzo alle 18.30 presso la sede della Fondazione (viale Pasubio 5; Sala Polifunzionale) sul tema Comunità si terrà un meeting su Nuove società, nuove economie. A discuterne, moderati dal conduttore e autore radiofonico e teatrale Matteo Caccia, l’economista ed ex-ministro Fabrizio Barca, l’ex Presidente dell’Ecuador Rafael Correa e Marcio Pochmann, professore di economia all’Università Statale di Campinas.La comunità, come insieme di relazioni umane e spirito collaborativo, è il termometro della società: può rafforzarsi o deteriorarsi, incidendo sulla tenuta e la fibra della collettività. L’ingrediente fondamentale, che oggi è quanto mai urgente recuperare, è il senso comunitario e collettivo di bene comune, l’unico collante capace di ricomporre le fratture sociali causate dalle disuguaglianze economiche. Prende avvio da qui l’analisi dell’ex ministro Fabrizio Barca, che si focalizzerà sulla polarizzazione sociale, gli squilibri territoriali e il problema della disuguaglianza, esaminandone cause, prospettive e soluzioni, soprattutto nel macrosistema europeo.Si andrà quindi al cuore del rapporto economia-comunità con l’intervento dell’ex Presidente dell’Ecuador Rafael Correa, che delineerà il paradigma del socialismo all’inizio del XXI secolo per poi mettere a fuoco l’attuale panorama politico dell’Ecuador. A seguire Marcio Pochmann, candidato parlamentare per il Partito dei Lavoratori (PT) alle scorse elezioni presidenziali brasiliane, si concentrerà sulla storia politica e culturale recente del Brasile, a partire dall’ondata autoritaria che ha fatto notizia negli ultimi mesi. Infine, dal livello macro degli inquadramenti e delle riflessioni economico-politiche si arriverà al livello micro dell’esperienza sul campo, grazie alla testimonianza di buone pratiche offerta da Faircoop.Questo appuntamento rientra nel programma del FeltrinelliCamp, una due giorni che si terrà presso la Fondazione G. Feltrinelli in cui saranno chiamati a raccolta cento ricercatori e professionisti da tutta Europa impegnati in sessioni di lavoro e confronto sui temi chiave delle politiche economiche e delle nuove formule di cooperazione tra cittadini e istituzioni pubbliche e private, con l’obiettivo di condividere e promuovere iniziative, progetti e pratiche che mirano all’inclusione sociale e al benessere condiviso.
Le conseguenze del futuro proseguirà sui temi: Salute. Sulla nostra pelle, con Kate Pickett, professoressa di epidemiologia presso l’Università di York, e il direttore dello Human Technopole Iain Mattaj (23 aprile); Cibo. La giusta risorsa, con Raj Patel, economista, giornalista e attivista affiliato alla University of Texas, e il Vice Presidente Commissione Agricoltura Parlamento Europeo Paolo De Castro (7 maggio); Spazio. Le piazze del mondo, con Ash Amin, urbanista e geografo presso l’Università di Cambridge, in dialogo con Abderrahman Labsir, responsabile delle politiche giovanili e di inclusione sociale e membro del consiglio municipale della città di Mechelen, in Belgio, esempio di integrazione sociale e culturale fondata su processi partecipati di rigenerazione urbana (22 maggio).Tutti gli incontri sono a ingresso libero fino a esaurimento posti. http://www.fondazionefeltrinelli.it

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Immigrazione: Il governo sbaglia e i comuni ne pagano le conseguenze

Posted by fidest press agency su giovedì, 6 luglio 2017

palazzo chigi«Il Governo italiano non scarichi sui Comuni il peso della sua insensata politica migratoria e sostenga il diritto a non emigrare dei popoli, affermato anche da Papa Benedetto XVI», è quanto dichiara il vicepresidente dell’Anci e sindaco di Pergola, Francesco Baldelli.«Sono i Comuni a pagare il prezzo più alto, dal punto di vista economico e di sicurezza, dell’accoglienza a tutti i costi voluta da Palazzo Chigi. Per rendersene conto chi ci governa dovrebbe scendere tra i cittadini che ci raccontano dei loro quotidiani problemi di povertà, disagio e insicurezza – continua il Sindaco del comune della Provincia di Pesaro e Urbino – L’atteggiamento del nostro governo non può essere quello di pietire perché gli altri Stati europei si facciano carico di migranti economici, fatti sbarcare in Italia da chi lucra su persone che saranno infine abbandonate a povertà e criminalità. L’Ue ha dimostrato di non accettare la politica delle ‘porte aperte a tutti’ che attira sempre più migranti economici e sempre meno profughi. Dovunque, tranne che in Italia, si è compreso che non si può finanziare l’invasione dei propri Stati ma occorre risolvere il problema alle origini: blocco navale e chiusura dei porti, riaffermando il diritto a non emigrare con un piano di sostegno economico nei territori africani. Se non lo comprenderà il governo Gentiloni scaricherà sulle città nuovi poveri, decretando la fine del welfare dei nostri comuni», conclude Baldelli.

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Voto anticipato e possibili disastrose conseguenze

Posted by fidest press agency su martedì, 6 giugno 2017

quirinaleAmmesso, e non ancora concesso, che Renzi, Berlusconi e perfino Grillo (ci sarebbe da ridere se non fosse che c’è molto da piangere) siano davvero d’accordo, sulla legge elettorale “finto tedesca”, ma soprattutto su l’anticipo delle elezioni, qui comunque si stanno facendo i conti senza l’oste. Che nello specifico porta il nome di Sergio Mattarella. Il quale, pur non avendo affatto il profilo del predecessore, e sentendosi autenticamente una “autorità disarmata”, anzi proprio per questo, non intende per nulla al mondo cedere un centimetro delle sue prerogative costituzionali, a partire da quella che lo vede decisore assoluto e solitario dello scioglimento delle Camere. E chi pensasse diversamente, commetterebbe un errore di valutazione politica tanto marchiano quanto fuorviante.Ergo, non è affatto detto che se anche le nuove regole elettorali fossero approvate in tempo utile (tra fine giugno e luglio) per andare alle urne in autunno, il presidente della Repubblica proceda a chiudere la legislatura senza colpo ferire. Anzi, per dirla meglio, è assai probabile che giocherà ogni carta possibile per evitare quello che tutti o quasi pensano sia un passo avventato e per di più privo di ogni utilità (anche e forse soprattutto per chi lo sollecita) e logica politica. Perché finora, al di là della voglia di rivincita di chi ha perso il referendum dopo esserselo interamente intestato – questione che ha a che fare più con la psicanalisi che con la politica – nessuno ha mai spiegato perché dovremmo anticipare di 4-5 mesi la naturale scadenza della legislatura. Forse anche perché nessuno dell’attuale maggioranza ha mai esplicitamente rivendicato fino in fondo il presunto diritto.Ma quali carte ha in mano il capo dello Stato, oltre la (non trascurabile) moral suasion? Diverse. Intanto avrà buon gioco a respingere al mittente la valutazione secondo la quale una nuova legge elettorale deve necessariamente comportare l’immediato scioglimento delle Camere. Prima di tutto perché una manciata di mesi non sono un tempo indefinito, ma ragionevole, se con essi si completa la legislatura e si compie in modo regolare la sessione di bilancio autunnale (non è casuale che si voti sempre in primavera). E poi perché il sistema di conteggio dei voti di cui si parla è con tutta evidenza un rabberciamento dei due mozziconi di legge rivenienti dalle sentenze della Corte Costituzionale, non una nuova legge elettorale che segna una netta discontinuità nel sistema politico, come fu nel 1994 quando Scalfaro mandò a casa il governo Ciampi.
Al di là di questo, e di altro, la vera questione su cui Mattarella può far leva per frenare i pruriti del voto anticipato è quella della manovra economica. Mentre si consolidano i timidi segnali di ripresa – sia i segnali sia la loro timidezza – scompaginare la sessione di bilancio che prevede di essere presentata entro il 15 ottobre per poi essere ratificata entro la fine dell’anno, sarebbe puro avventurismo. Tanto più che stavolta, anche al netto di ulteriori dosi di flessibilità che l’Europa dovesse concederci, la manovra non potrà che essere molto impegnativa. Insomma, di quelle che nessun politicante ha voglia di intestarsi, abituati come si è a considerare le cose serie elettoralmente improduttive, se non dannose. Sbagliando, perché in realtà Monti aveva grande consenso quando all’inizio del suo governo aveva messo le mani sul sistema pensionistico, mentre lo ha perso in seguito quando non ha continuato e soprattutto non ha saputo dare una prospettiva politica alla sua azione; viceversa Renzi il 40% alle europee non lo prese per gli 80 euro, che non hanno cambiato la vita a nessuno, ma per aver saputo offrire una speranza di cambiamento, che poi, una volta delusa, ha determinato la sua sconfitta nonostante le varie elargizioni.In ogni caso, ora i nodi della finanza pubblica sono venuti al pettine, ed è nella prossima manovra finanziaria che andranno sciolti. Di qui l’idea di chi si sente già di ritorno a palazzo Chigi di procrastinare a dopo il voto il letale appuntamento con la verità. Peccato che questo sia pericoloso, e non tanto per l’Europa – il rapporto con la quale andrà una buona volta regolato diversamente da quello che ci vede alternativamente (quando non contemporaneamente) genuflessi o (e) strafottenti – quanto per i mercati, che non vedono l’ora di poter tornare a menare le mani come nel 2011. Anche perché, non è affatto detto che l’esito del voto garantisca una qualche governabilità. E se dovesse scattare l’esercizio provvisorio di bilancio, è evidente che saremmo messi nudi al cospetto della speculazione finanziaria, con tutto quello che può significare per la nostra già gracile ripresa economica.Per questo, ci permettiamo di indicare al presidente Mattarella una strada che può o evitare le elezioni anticipate perché spaventa chi le vuole, o rivelarsi una forma di tutela nel caso malaugurato che alla fine si sia costretti ad andare alle urne in autunno: far decidere l’aumento dell’Iva dal governo Gentiloni, subito. Detta così può suonare male, ma la proposta ha una sua logica. Come sapete, l’Italia ha accettato clausole di salvaguardia in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi di risanamento dei conti pubblici, tra cui un aumento dell’Iva pari a 19 miliardi per il 2018 e 23 per il 2019. A nostro avviso, piuttosto che cercare scappatoie o rabberciare manovrette, tanto vale riorganizzare le aliquote Iva, come peraltro hanno già fatto molti altri paesi, Germania in testa. Anche perché a Bruxelles indorare la pillola con la “narrazione”, stile #italiariparte, stavolta non ce lo fanno fare. E se proprio si deve rompere con l’Europa, tanto vale farlo sulle banche per sconfiggere il “partito del bail-in” che si annida tra Bruxelles, Francoforte e Berlino, ed evitare la catastrofe – non solo economica, ma anche politica – di dover mettere in risoluzione le due banche del Nordest o, peggio, il Montepaschi. Inoltre, qualcuno nel governo (i ministri Padoan e Calenda), Bankitalia e Confindustria avevano già rilanciato la proposta dell’Ocse di un innalzamento delle aliquote Iva anche ai fini di uno taglio del cuneo fiscale, anche se poi le barricate erette un po’ da tutti, Pd renziano in testa, hanno fatto accantonare l’idea.Eppure, l’aumento dell’Iva avrebbe il pregio di far lievitare un poco l’inflazione – ne abbiamo bisogno, dopo la ventata deflazionistica dei mesi scorsi – aiuterebbe a svalutare un pochino un debito pubblico che continua a crescere (nel 2017, secondo la Commissione Ue, ciò avverrà solo in Italia), rendendo meno onerosi gli interessi proprio ora che lo spread è tornato a 200 punti e che si intravede la fine della politica monetaria espansiva della Bce. Inoltre, graverebbe meno sui costi di produzione e dunque sull’export, unico vero traino della nostra economia. Certo, ritoccare le aliquote Iva non fa bene ai consumi. Su questo la Confcommercio ha ragione. Ma qui si tratta di valutare quale sia il male minore. Le simulazioni di Confindustria ci dicono che i danni maggiori derivano dal cuneo fiscale, non dall’Iva. E non dobbiamo nemmeno dimenticare che in Italia abbiamo quattro aliquote (al 4%, al 5%, al 10% e al 22%), mentre, per esempio, in Germania solo due (al 7% e al 19%) e che, quindi, una riorganizzazione è opportuna. E questa può essere l’occasione buona. Anche perché la differenza tra gettito Iva potenziale e reale è intorno ai 40 miliardi, e questa “tassa occulta” va in qualche modo colpita. Insomma, se per evitare il rincaro dell’Iva si tagliano gli investimenti pubblici, aumentano le tasse sul lavoro e sugli immobili, si (s)vendono i gioielli di Stato, per poi distribuire i soldi a pioggia per comprare consenso, ben venga l’Iva. E ben venga come argine alle follie di una politica che non ha ancora capito che prezzo gli italiani intendano farle pagare alle prossime elezioni. Tanto più se anticipate.(Enrico Cisnetto direttore http://www.terzarepubblica.it)

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Medicina diabete: abbandono della dieta mediterranea quali conseguenze

Posted by fidest press agency su giovedì, 10 novembre 2016

diabete_21-300x224Anche in Italia si sta assistendo ad un costante aumento delle persone che adottano diete prive di carne, quella vegetariana, o prive di qualsiasi derivato di origine animale, quella vegana. E’ un fenomeno non solo nazionale, ma globale, che registra quasi 5 milioni di persone che oggi in Italia adottano questi stili alimentari, numero destinato a salire nei prossimi anni. Questo cambiamento di alimentazione può coinvolgere anche pazienti con diabete di tipo 2 e richiede una valutazione del loro impatto sulla salute da parte degli specialisti.«Un’alimentazione corretta fa parte del percorso terapeutico delle persone affette da diabete mellito di tipo 2, spiega Giovanni De Pergola, responsabile dell’Ambulatorio di Nutrizione Clinica, UOC di Oncologia Universitaria, Policlinico di Bari. Diversi modelli alimentari hanno dimostrato di migliorare i parametri metabolici nel paziente con diabete: la dieta mediterranea, le diete vegetariane e vegane, le diete ipolipidiche e le diete povere in carboidrati. In particolare, la dieta mediterranea, soprattutto se associata ad una riduzione della quantità dei carboidrati, non soltanto riduce i livelli di emoglobina glicata, ma aumenta la percentuale dei casi di remissione da diabete e ritarda la necessità di ricorrere ai farmaci. D’altro canto, le diete vegana e vegetariana si sono mostrate più efficaci rispetto alle diete convenzionali proposte dalle società scientifiche diabetologiche su peso corporeo, controllo glicemico, lipidi plasmatici, sensibilità all’insulina, dovuta ad aumento di acido linoleico, e stress ossidativo, anche indipendentemente dalle modificazioni di peso. Nel confronto tra diete vegetariane e vegane va però considerato che i vegani possono manifestare un deficit clinicamente importante di vitamina B12 e dieta mediterraneaiodio.»«Ad oggi non sono disponibili studi che abbiano messo a confronto la dieta mediterranea con la dieta vegetariana o vegana, prosegue Silvio Settembrini, Board AME, Malattie Metaboliche e Diabetologia Asl Napoli 1 Centro, pertanto, non è possibile esprimere una preferenza chiara e su base scientifica per i pazienti con diabete tipo 2. Un’alimentazione vegana potrebbe ridurre il rischio di sovrappeso, obesità, cardiopatie ma anche accentuare il rischio di anemia, di carenza di calcio con osteoporosi e sviluppo di carenze vitaminiche e minerali. Un punto di vista condivisibile è che si possa raccomandare una dieta a prevalente quota vegetariana, con circa il 15% di proteine animali, importante soprattutto per i soggetti anziani che potrebbero risentire di un minor apporto proteico.Al di fuori delle valutazioni scientifiche e nutrizionali, un altro fattore molto importante da considerare è lo stile di vita del paziente. La dieta mediterranea, ad esempio, viene spesso suggerita oltre che per il maggior numero di dati scientifici a favore, anche perché è molto più vicina ai nostri gusti ed alle abitudini alimentari tradizionali. Il diabete è una malattia che condiziona tutta la vita del paziente in quanto necessita di una modifica delle sue abitudini, ma è parimenti noto quanto sia difficile modificare le scelte alimentari, soprattutto se corrispondono ad un modo di sentire e a scelte etiche.Quindi, in attesa di disporre di studi che confrontino l’impatto sul diabete di tipo 2 dei diversi regimi alimentari (dieta mediterranea, dieta vegetariana e vegana) è importante considerare le scelte alimentari delle persone con diabete, modificandole per garantire un’efficacia terapeutica ma cercando di non stravolgere eccessivamente le abitudini alimentari e la vita stessa del paziente».

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La giustizia in Italia

Posted by fidest press agency su sabato, 19 gennaio 2013

Ho scritto queste cose venti anni fa. Sta al lettore di oggi rilevare le eventuali diversità intro-dotte nel sistema giudiziario italiano e capire, come credo, quanto poco sia stato fatto per restituire al precetto giuridico la sua identità e il suo indirizzo nella realtà sociale e civile di un Paese che vorremmo definire a democrazia compiuta.
Come posso ampiamente rilevare la società contemporanea, da una parte, ha fatto tesoro delle esperienze passate, recenti e remote, maturate negli studi approfonditi degli studiosi del diritto che, a mio avviso, hanno inteso, in questo modo, tutelare l’ordinato evolversi della “comunità” rispetto ai suoi compositi impegni ai quali è, di volta in volta, chiamata. Alla base di questo modello “evoluto e specialistico”, offertoci dall’amministrazione della giustizia, vi è stata, da sempre, la convinzione che solo una “società” ordinata, secondo certi principi universalmente riconosciuti e accettati dalle genti che sceglievano di vivere in comunità e che tracciavano un’area autonoma di territorio dove costruire il loro avvenire, potesse offrire una base concreta sulla quale poter assicurare forza e determinazione ai suoi progetti unitari. Scrivevo, infatti: “La storia, per altro, ci insegna che là dove è venuta meno la giustizia e con essa l’autonomia del giudice dagli altri poteri forti dello Stato, vi è stato il collasso statuale e la crisi è diventata irreversibile fino alle sue estreme conseguenze con le dittature, lo Stato di polizia e via dicendo.” Ma la giustizia per essere valida non ha solo bisogno di buone leggi e quindi di un legislatore nato per essere “saggio, accorto e sensibile alle realtà del mondo che cambia”, ma deve far sentire la sua presenza facendo in modo che essa pervenga ai destinatari, attori o convenuti che siano, con tempestività, equità e uniformità di giudizio a prescindere dalle loro condizioni sociali, dal ceto e dal ruolo politico svolto. Ebbene in Italia, e in una certa misura anche nel resto del mondo industrializzato e non, stanno venendo meno questi presupposti perché si sta scivolando sul piano inclinato di una giustizia che si vuole al servizio di qualcuno, ad usum delphini e non nell’interesse generale. Questo malessere è avvertito un po’ da tutti. Scriveva nel 1986, tra l’altro, il Presidente pro tempore della Corte di Appello di Roma Carlo Sammarco: “Finora il cittadino italiano nutriva una sostanziale fiducia nei suoi giudici, pur essendo ripagato con disfunzioni e ritardi.” “Di recente ha mutato atteggiamento: esso è divenuto critico se non sospettoso nei confronti dell’istituzione giudiziaria.” La verità è che il giudice italiano è chiamato a rendere giustizia in una società che nel-l’ultimo trentennio si è profondamente trasformata e lo ha fatto ad un ritmo vertiginoso. L’avvento dello stato sociale, finalizzato a garantire a tutti i conso-ciati i benefici conseguiti attraverso lo sviluppo eco-nomico, ha comportato la tendenza alla socializ-zazione del diritto; nel contempo il processo di democratizzazione del sistema socio-economico, per effetto di una imponente moltiplicazione dei sog-getti economici sociali ed istituzionali, ha, a sua volta, sviluppato la tendenza al policentrismo del diritto, essendosi la funzione legislativa del Parla-mento rivolta alla composizione degli interessi ed alla regolamentazione dei poteri dei corpi intermedi e dei gruppi in competizione fra di loro, per cui le leggi spesso si atteggiano a veri e propri statuti di gruppo. A queste due tendenze del diritto se n’è aggiunta una terza: la proliferazione del diritto; le leggi si accumulano, si contraddicono, si cancellano, il tutto in maniera caotica. Di conseguenza, è venuta appannandosi la posizione di terziarità del giudice, per cui taluno ha parlato di amministrativizzazione della funzione giudiziaria.” Ebbene mentre cambia-vano, a un ritmo inusitato, i connotati sostanziali della giurisdizione e il ruolo del giudice si ampliava e si potenziava occupando spazi un tempo impen-sabile, non si provvedeva prontamente alla riconsi-derazione della sua professionalità e al rinnovamento della legge concernente il loro status e dei codici di rito e tanto meno all’ammodernamento delle strutture organizzative. Cosicché, accanto alle disfunzioni di sempre, andatesi viepiù aggravandosi, è venuta proponendosi una messa in mora per i modi in cui la giustizia è amministrata in Italia. Un evento, questo, carico di conseguenze negative per l’ordinato vivere civile della comunità nazionale di fronte alla quale non si può rimanere inerti e conti-nuare a credere che tutto possa rimanere come prima. Ebbene nonostante questo e molti altri appelli apparsi sugli organi di stampa, non solo spe-cialistici, e in tutte quelle sedi, compreso il Parla-mento dove non solo si poteva informare ma anche decidere una svolta, nel senso voluto in apparenza da tutti, per ridare fiato alla questione giustizia e a conferirle quella funzione vitale per la tenuta stessa della democrazia, poco o nulla è stato fatto. Queste riflessioni ho incominciato a farle nella prima stesura di un mio lavoro, ovvero nel 1995. L’ho vista come la giustizia che si propone con sconti di pena, di condoni e di amnistie, ma nessuno sembrava voler prendere il classico toro per le corna ed affrontare il problema alla radice. E’ sempre di quel tempo il commento-sfogo, fin troppo amaro, per quanto fosse realistico, di un magistrato, Fabio Salamone – chiamato a svolgere una delicata inchiesta – quando in un’intervista, rilasciata a un giornalista del “Corriere della sera”, dice: “Come il solito in questa Italia che continua a prendersi in giro, il problema non è posto correttamente, mi pare.” Intanto, i processi una volta in piedi si devono fare. Salvo che il potere politico si assuma la responsabilità di bloccarli o modificarne la procedura in corso d’opera. “Ovviamente – egli rileva – non spetta a noi magistrati decidere.” “Siamo solo dei tecnici che potremmo esprimere un parere, se richiesto, fermo restando l’obbligo di applicare leggi e norme fatte da altri, da un altro potere costituzionale, appunto quel-lo legislativo.” “II chiarimento, quindi, va ricercato esclusivamente in sede politica.” Se ci soffermiamo un attimo a considerare proprio questo specifico aspetto richiamato da Salamone, per quanto ovvio, ci troviamo a dover registrare la prima grossa incongruenza nel sistema Italia. Il Parlamento legifera ed è quello che è chiamato a fare nel caso specifico, ma non ci sembra corretto, per non dire altro, che una volta affidate le leggi, da esso emanate, ai magistrati per farle applicare, si debba dire “tra le righe” che se colpiscono certi uomini influenti le stesse norme non valgono più e che, ancor peggio, esistono degli “intoccabili” che possono rubare, uccidere e compiere qualsiasi illecito, ma guai a chi osa chiamarli a risponderne. Anche in questa circostanza continua a valere la logica del più forte, quella del vincitore che in guerra si vede assolte le sue atrocità mentre condanna quelle del nemico sconfitto, che trasforma in “eroi” dei biechi assassini e riduce a “carnefici” quelli dell’altra parte che hanno avuto il demerito di essere dei perdenti. Dov’è la giustizia in questi casi? E’ indubbiamente in un solo posto: nel cuore dei malvagi, dei prevaricatori, e allora non chiamiamola, ipocritamente, giustizia, ma qualcosa d’altro. E al contrario di quanto pensa Salamone, dico che in Italia, e aggiungo non solo in Italia, non si tratta di schizofrenia del potere politico quando affronta i temi della giustizia peccando di farlo senza uno studio sereno, né di avvalersi di emozioni legate a casi particolari tanto da valutare ogni grande tematica in rapporto solo alla soluzione di una singola emergenza, ma è qualcosa di ancora più grave. E’ vero e proprio disfattismo. La corru-zione non è solo il frutto di una burocrazia malata, ma è la volontà di alcune categorie di voler comun-que mestare nel torbido per ricavarvi il massimo profitto a costo zero. Ci sembra persino comico il voler perseguire il capo della lega Bossi allorché “minaccia” il “separatismo” per voler fondare la repubblica del Nord. E a chi si straccia le vesti scandalizzato per queste oscenità da “ergastolo”, chiediamo se onestamente lo Stato italiano, dalla sua unità a oggi, abbia mai fatto qualcosa in nome di tutta la nazione o, più semplicemente, se non si sia servito del Meridione come di un semplice mercato di sbocco delle produzioni concentrate nel Nord.
Allo stesso modo si è comportata la Francia di Napoleone III nel momento in cui intese favorire l’unità d’Italia.
La sua riserva mentale era quella di procurarsi uno spazio “privilegiato” per i suoi commerci in Italia in cambio degli appoggi resi.
Le forze politiche devono quindi avere la serenità di valutare i temi della giustizia nella loro globalità e senza preconcetti.
C’è troppa confusione. L’ignoranza della legge non scusa, si dice. Ma non esiste un codex, un corpus con tutte le norme penali. Si fa una legge finanziaria e s’inserisce una norma penale. Si vara una legge sui bovini ed è lo stesso.
Con la conseguenza che nessuno sa quanto siano i reati in Italia.
A questo punto è urgentissimo ordinare la materia. Non dimentichiamo che nel nostro Paese vige un codice penale di una società che non esiste più.
“A questo si aggiunge il problema del sovraccarico degli uffici penali”. (Riccardo Alfonso)

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Prestiti alle famiglie

Posted by fidest press agency su lunedì, 5 marzo 2012

La stretta finanziaria messa punto dalle banche non solo ha colpito l’area delle produzioni industriali e artigiane e l’attività del terziario ma ha anche inciso in maniera significativa sul criterio di erogazione dei prestiti alle famiglie per l’acquisto di abitazioni. Si registra infatti in quest’ultimo quadrimestre, a cavallo tra i due anni, un inasprimento netto dei criteri di concessione dei mutui alle famiglie (diciamo intorno al 24%). Ciò determina in prima battuta un calo delle nuove costruzioni e una ricaduta del mercato del lavoro in quell’area. In prospettiva la situazione non tende a migliorare. Le banche si attendono una ulteriore flessione delle domande di mutuo per l’acquisto di abitazioni che possiamo quantificare intorno al 44% su base netta in questo primo trimestre. Per il credito al consumo delle famiglie il calo si è manifestato minore attestandosi intorno al 18% in termini netti.
Se analizziamo le ragioni di questo contenimento vi è motivo di credere che esse dipendano, per buona parte, dalla crisi del debito sovrano, per via dell’esposizione diretta delle banche e conseguente diminuzione del valore dei titoli di Stato come garanzia o di altri effetti. Ma vi è anche, a nostro avviso, il mancato aggiornamento tecnologico ed operativo del sistema bancario nel suo complesso. In altri termini sono stati sostenute molte spese per garantire sul territorio la presenza di agenzie e filiali mentre si è dato poco spazio e quella parte di servizi automatizzati per ridurre drasticamente i servizi elementari allo sportello e per la semplificazione delle procedure per l’erogazione di prestazioni finanziarie e assicurative. (Riccardo Alfonso http://www.fidest.it)

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Prime cooperative tra professionisti

Posted by fidest press agency su mercoledì, 29 febbraio 2012

Con l’emendamento che istituisce l’art. 9-bis al decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1, il Governo ha colto la maggior parte delle richieste degli Ordini professionali in tema di società professionali modificando l’art. 10 della legge n. 183/2011 (la legge di stabilità) che, diversamente, avrebbe avuto effetti devastanti sul sistema professionale.
A meno di sorprese dell’ultimo minuto (abbastanza improbabili perché l’emendamento è presentato dallo stesso Governo) le Società professionali si faranno e potranno avere anche soci terzi di puro capitale, ma la loro partecipazione sarà limitata ad un terzo del capitale e comunque ad un terzo dei voti sociali, quindi attergato in misura assolutamente minoritaria. La decisione del Governo rappresenta una vera svolta visto che in precedenza, alla richiesta del Collegio Nazionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati di modificare l’art. 10 della legge n. 183/2011, era sempre stato risposto negativamente; evidentemente alla fine, il Governo ha compreso che, senza modifiche, i danni che sarebbero stati inferti al sistema erano esiziali.Una svolta positiva dunque, vista con favore da Roberto Orlandi, Presidente del Consiglio Nazionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati ed anche VicePresidente Nazionale del CUP, che giunge di buon auspicio in vista dell’imminente grande manifestazione del 1 marzo prossimo, il “PROFESSIONAL DAY”, che coinvolgerà decine di migliaia di professionisti, collegati via satellite da 156 città italiane (ma il numero tuttora in aumento), con la manifestazione principale che si svolgerà a Roma, all’Auditorium della Conciliazione.Le modifiche alle Società professionali introdotte dal Governo producono peraltro un effetto particolare: quello di rendere sostanzialmente possibile la costituzione di sole “Società professionali cooperative”. E sembra averlo ben capito la Lega Coop, presieduta da Giuliano Poletti, che ieri, 27 febbraio, con una fortunata tempistica, ha organizzato a Roma un Convegno sul tema, presente anche il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Zoppini.Perché le “Società professionali” possano trovare sostanziale realizzazione nell’ambito cooperativo è presto detto. L’emendamento del Governo limita la partecipazione del socio terzo di capitale al 33% delle quote di partecipazione (ovvero, in alternativa, al 33% dei voti sociali), con l’ovvia conseguenza che il restante 67% di capitale deve essere apportato dai soci professionisti i quali, dovendo comunque provvedere economicamente per la maggior parte, non si vede quale necessità abbiano di capitale terzo.

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Lotta al terrorismo

Posted by fidest press agency su venerdì, 9 settembre 2011

Image from: http://www.september11news.com/WTC...

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Oltre 200 milioni di persone appartenenti a minoranze etniche in undici stati di Africa e Asia soffrono per le catastrofiche conseguenze della cosiddetta lotta al terrorismo: sono queste le conclusioni dell’Associazione per i popoli minacciati (APM) in occasione del 10. anniversario dell’attacco terroristico dell’11 settembre al World Trade Center di New York e al Pentagono a Washington. Le nazionalità maggiormente colpite dalla lotta globale a l terrorismo sono i musulmani Uiguri nella Cina nordoccidentale e i musulmani di Pattani nel sud della Thailandia. I governi di entrambi gli stati sfruttano la coalizione contro il terrorismo per rappresentare i loro conflitti interni come un problema di terrorismo internazionale. Con questa falsa rappresentazione Cina e Thailandia si aspettano un sempre maggior sostegno internazionale nella repressione delle proteste contro la politica dei propri governi. In Africa sono soprattutto i Tuareg a soffrire per la crescente militarizzazione del Sahara. Sono sempre di più gli stati che intervengo nell’area sahariana per limitare l’influenza del movimento terroristico “Al Qaida nel Maghreb islamico”. In numerosi altri stati, i cui governi passano per islamici moderati, le persone appartenenti a minoranze etniche soffrono indirettamente le conseguenza della lotta al terrorismo. In questo modo in Pakistan sono aumentate drammaticamente le violazioni dei diritti umani per Beluci, Cristiani e Ahmadiyya. Questi crimini continuano ad essere ignorati dalla comunità internazionale. L’unione Europea e gli Stati Uniti restano a guardare, pur di non mettere a rischio la collaborazione degli stati persecutori nella coalizione anti terrore. Cristiani e Ahmadiyya in Pakistan sono vittime di accuse arbitrarie causate da discutibili sanzioni per presunta blasfemia. Politici e attivisti per i diritti umani cristiani devono temere per la propria vita e non vengono adeguatamente protetti dalle autorità di sicurezza. Nelle regioni in cui vive la minoranza dei Beluci i responsabili della sicurezza pakistani fanno sparire i critici del governo, praticano la tortura e li imprigionano senza processo. In Indonesia, la coalizione antiterrorismo tace sul numero crescente di attacchi alle chiese cristiane e alla comunità religiosa degli Ahmadiyya così come sulle perduranti persecuzioni nella Papua Occidentale, controllata dall’Indonesia. Arresti arbitrari e torture di attivisti di Papua o dissidenti nelle Molucche non vengono affatto criticati dalla comunità internazionale. Ovviamente non si può irritare su queste questioni il governo dello stato musulmano più popoloso al mondo. Anche in Algeria, Marocco e nel Sahara occidentale occupato illegalmente, le violazioni dei diritti umani verso Berberi, Tuareg e Saharawi restano impuniti, in quanto la coalizione contro il terrorismo non sostiene la fine dell’impunità. I governi transitori di Etiopia e Somalia non vengono messi davanti alle proprie responsabilità per crimini di guerra e persecuzioni di singoli gruppi etnici o dissidenti in quanto rappresenterebbero un baluardo contro la penetrazione di Al Qaeda nel Corno d’Africa. Ma questo presunto baluardo è inconsistente, poiché viola le proprie stesse leggi e calpesta sistematicamente i più elementari diritti umani. La coalizione contro il terrorismo perde in questo modo qualunque credibilità, poiché sulle questioni relative ai diritti umani usa due pesi e due misure.

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L’anima violenta del movimento no tav

Posted by fidest press agency su domenica, 3 luglio 2011

Dichiarazione di Federico FORNARO (Vice Segretario PD Piemonte) “Il gravissimo episodio di attacco premeditato e violento contro le forze dell’ordine messo in atto oggi in valle di Susa rappresenta una delle pagine più nere della storia del movimento No Tav e della democrazia italiana. E’ finito anche il tempo delle ambiguità: i sindaci e gli amministratori e la componente non violenta dei No Tav, sicuramente maggioritaria, deve trarre le conseguenze da quanto è accaduto, troncando ogni tipo di rapporto con gli esponenti dell’area antagonista, il cui unico interesse è contrapporsi con la violenza allo Stato e alle istituzioni. Non è più possibile, infatti, non comprendere i rischi (purtroppo drammaticamente trasformatisi in vergognosa realtà) di accettare di essere parte di una manifestazione che aveva come obiettivo dichiarato – più volte ribadito dal leader No Tav, Alberto Perino- di portare l’assedio all’area del cantiere della Maddalena di Chiomonte. Dal canto suo Grillo non ha perso occasione per dimostrare quanto siano dannosi e pericolosi i “cattivi maestri”: seminatori di odio per meri interessi propagandistici e elettorali, incuranti che a volte le parole possono produrre più danni delle pietre e delle bombe carta. Solidarietà piena, infine, alle forze dell’ordine e agli operai (loro sì lavoratori inermi), oggetto di una vergognosa aggressione militare.

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Firenze: Nubifragi, danni, caditoie

Posted by fidest press agency su lunedì, 6 giugno 2011

Firenze Il nubifragio di ieri 5 giugno a Firenze non e’ una calamita’ naturale imprevedibile per due motivi:
• sulle cause: le previsioni meteorologiche sono in grado di farci sapere con un certo anticipo cosa accadrà e, quindi, di organizzarci di conseguenza per ridurre il più possibile i danni. Hanno le nostre autorità preposte -essenzialmente Sindaco- fatto tutto quello che avrebbero e potuto fare?
• sulle conseguenze: una città in cui il deflusso delle acque chiare è ben organizzato, la caditoie non sono ostruite, i lavori in corso sono fatti seguendo le norme di sicurezza piu’ elementari, gli alberi sono monitorati, dovrebbe avere conseguenze limitate.
A Firenze, domenica 5 giugno, non è stato cosi’! Cosi’ come non era stato così per la nevicata dello scorso 17 dicembre. I fatti sono sulle cronache di tutti i media. E come per la medesima occasione, il Sindaco promette che farà tuoni e fulmini per individuare i responsabili, far pagare loro il dovuto e rimborsare le vittime. Non avremmo modo di non credere alla buona fede del Sindaco, ma siamo un po’ scettici visto quanto accaduto, per l’appunto, lo scorso 17 dicembre: tra promesse e impegni, non ci risulta una persona rimborsata. Il 5 giugno, per fortuna, era domenica, quindi le conseguenze sui cittadini sono state limitate. Chi ha ricevuto un danno e’ bene che non attenda le indicazioni dell’amministrazione, perchè non solo non ci saranno, ma a chi chiederà i danni il Comune farà sicuramente resistenza, come del resto fa in tutto quello in cui, pur avendo torto, difende l’indifendibile (vedi autovelox). Il metodo vigente e’ “passata la festa gabbato lo santo”. Ma se ognuno ci mette un po’ di coinvolgimento civico, anche solo per far capire ai nostri amministratori che il loro impegno deve essere continuo e professionale, forse riusciamo ad invertire questa tendenza. Non basta solo dimostrarlo col voto, premiando o meno di secondo noi fa bene o male, ma anche durante il mandato amministrativo i cittadini si devono far sentire, rivendicare i propri diritti e far pagare i responsabili. Il metodo, per il singolo cittadino, e’ la messa in mora: raccomandata A/R in cui si fanno presenti i danni (possibilmente dimostrandoli) e si intima il pagamento entro 15 giorni: http://sosonline.aduc.it/scheda/messa+mora_8675.php (Vincenzo Donvito, presidente Aduc)

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Fine berlusconismo,ora nuovo centrodestra

Posted by fidest press agency su martedì, 31 Maggio 2011

”Il risultato e’ inequivocabile. La maggioranza dovrebbe trarne le conseguenze. La stagione di questo governo è chiaramente finita. Berlusconi ha palesemente e malamente perso il referendum su se stesso. Ora è difficile raccontare che è solo colpa dei candidati. Certo, io non ho l’euforia di altri, perché quando vince la sinistra non posso essere contento. Il risultato di oggi conferma che Fli e l’Udc sono determinanti per far perdere il Pdl, ma soprattutto che, finita la stagione del berlusconismo, bisogna costruire un nuovo centrodestra, in cui tutti possano ricominciare a parlare e ci si raccolga non più attorno a un unico padrone, ma attorno ai leader che nel centrodestra ci sono, tra i quali sicuramente Fini e Casini. Per ora – conclude – il Pdl si e’ chiuso in un recinto, in una riserva indiana: se non ne esce rischia di estinguersi.” Lo dichiara l’on. Roberto Menia, coordinatore nazionale di FLI.

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Mandato arresto Gheddafi

Posted by fidest press agency su martedì, 17 Maggio 2011

“La richiesta di arresto della Corte Penale Internazionale di Gheddafi, del figlio Saif al Islam e del capo dell’intelligence di regime Al Senoussi, e’ un fatto estremamente positivo” Ha dichiarato l’on.Gianni Vernetti, deputato di Alleanza per l’Italia e gia’ Sottosegretario agli Affari Esteri. “Gheddafi e il suo apparato repressivo- ha proseguito l’on.Vernetti- si sono resi responsabili in questi mesi di orribili crimini contro la popolazione civile libica e solo l’intervento militare della Nato ha evitato conseguenza ancora più tragiche” “La scelta odierna della Corte Penale Internazionale – ha dichiarato l’on.Vernetti- rende più deboli i dittatori in tutto il pianeta e soprattutto trasmette loro un segnale chiaro: chi compie crimini contro l’umanità non può considerarsi al sicuro sotto la protezione della sovranità nazionale del proprio paese” “Da oggi- ha concluso l’on.Vernetti- il regime di Gheddafi e’ ancora più debole e la comunità internazionale deve sostenere ancor più convintamente il Consiglio di Transizione di Bengasi quale rappresentante legittimo del popolo libico, fornendo loro ogni sostegno economico, politico e militare necessario.”

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A Bari un quartiere trasformato in discarica

Posted by fidest press agency su mercoledì, 13 aprile 2011

Pieno appoggio ai cittadini pugliesi che protestano a Bari San Giorgio perché stanchi dei rifiuti lasciati sulla complanare della statale 16, arriva da Vincenzo Anelli, vice responsabile per la Puglia dell’Italia dei Diritti. “Condivido le azioni di protesta degli abitanti della zona che da tempo sollecitano l’intervento delle autorità cittadine e dei servizi competenti, quali l’Amiu, a seguito dei disservizi le cui conseguenze ricadono sul quartiere”. Anelli punta i riflettori in particolare sull’abbandono di rifiuti di ogni genere “che – aggiunge – di frequente presentano materiali pericolosi come amianto e pneumatici”. L’esponente del movimento presieduto da Antonello De Pierro getta un faro di luce sulla condizione che affligge i residenti del quartiere barese che vivono una situazione critica: “L’abbandono indiscriminato dei rifiuti rappresenta un rischio per la salute, nonché un danno all’ambiente e in particolare alla costa”. Il vice responsabile pugliese del movimento extraparlamentare sottolinea la ricaduta economica e turistica, che il perdurare di una simile situazione può provocare sulla litoranea barese, e lancia l’appello alle istituzioni: “Chi è tenuto a monitorare il territorio individuando i responsabili di simili azioni deve adempiere al pieno il suo dovere. Il problema dei controlli – conclude – è centrale”.

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Guerra in Libia. Quali costi e conseguenze?

Posted by fidest press agency su lunedì, 21 marzo 2011

di Carlo Ruta. In Libia è partita una guerra, che i governi dell’Occidente e gran parte dei mezzi d’informazione presentano ancora una volta come umanitaria. Di cosa si tratta realmente? Per comprendere quanto sia credibile tale motivo, è utile partire da un paio di dati storici recenti. Israele alcuni anni fa ha pianificato e attuato in Palestina una operazione che ha denominato con coerenza «piombo fuso». L’esito è stato di qualche migliaio di morti, quasi tutti civili. Ma nessuno ha minacciato una guerra «umanitaria». Nessuno si è guardato bene dal metterla in opera, come nessuno si era esposto a tanto già nella precedente operazione «Pace in Galilea», dagli esiti analoghi. Altro caso istruttivo è quello dello sterminio delle popolazioni cecene pianificato e attuato da circa venti anni dai governi della Russia, prima con Eltsin poi con Putin. Si tratta per certi versi di una guerra infinita, che ha provocato centinaia di migliaia di morti, in massima parte civili. Fino ad oggi nessuno Stato ha invocato però l’avvio di guerre «umanitarie». Nella Libia di Gheddafi tale tipo di azione, in difesa dei diritti delle popolazioni, è stata invece voluta risolutamente dalle nazioni forti dell’Occidente, su input degli Stati Uniti e con la convalida del consiglio di sicurezza dell’ONU. A quali costi, in termini di vite umane? In Libia è in atto una virulenta repressione di regime, che in un mese ha fatto centinaia di morti, forse qualche migliaio. Ma l’attacco «umanitario» promette di tradursi in una ecatombe, con numeri di vittime di molto superiori. Gli strateghi della Nato e del Pentagono sono troppo avvertiti per non mettere nel conto esiti di questo tipo, trattandosi di disarticolare una forza militare che, allo stato delle cose, non è di poco conto. Non solo. È prevedibile che occorra neutralizzare le reti militari non convenzionali, anche queste non indifferenti, costituite anzitutto dalle unità terroristiche e mercenarie del regime di Gheddafi. E, come testimoniano le casistiche belliche degli ultimi decenni, se si intende centrare quest’ultimo obiettivo, le stragi di civili, dette comunemente «effetti collaterali», tanto più difficilmente saranno evitabili. Nelle prime fasi della guerra preventiva in Iraq, per eliminare cellule del regime deposto, i comandi americani non hanno esitato a pianificare a Baghdad la distruzione di interi isolati in cui risultavano annidate, con l’uccisione di tutti i civili che li abitavano. E, come attestano numerose cronache, tale regola non scritta ha funzionato e vige ancora in Afghanistan.  Le guerre «umanitarie» hanno avuto fino ad oggi un decorso istruttivo. Se ne ricordano due recenti, per certi versi emblematiche: quella in Somalia, nel 1992-93, e quella in Kosovo del 1999. La prima, un po’ per convincimenti strategici errati, un po’ per imperizia dei comandi sul terreno, è degenerata presto in una carneficina «umanitaria» che ha raggiunto l’acme nella battaglia del Checkpoint del 2 luglio 1993, chiusasi, secondo fonti ufficiose, con centinaia di morti civili. Le folle somale, di cui si facevano scudo i miliziani di Aidid e di altre fazioni, hanno saldato poi il conto, con stragi dei «benefattori» occidentali. Infine questi ultimi, resisi conto della palude in cui erano sprofondati, con un nemico che finiva con il combaciare in tutto e per tutto con l’intera popolazione, hanno dovuto uscirne, lasciando una situazione tragica. L’Unione Africana, l’organizzazione sovranazionale cui fanno riferimento tutti i paesi africani ad esclusione del Marocco, ha assunto una posizione netta, contraria all’attacco militare degli Usa e di altri paesi forti dell’Occidente. Si candidava in questo modo a intervenire sulla vicenda, in modo autonomo, sul piano diplomatico e non solo. Ma, a dispetto della decolonizzazione, la parola del continente nero non ha contato praticamente nulla. Di primo acchito, la crisi del Maghreb, che ha fatto aumentare di molto il prezzo del greggio, ha generato apprensione nei governi europei che per decenni, in un quadro di stabilità strategica, avevano fatto affari con i regimi di Ben Ali, Mubarak e Gheddafi. Passata però la concitazione delle prime settimane, nei medesimi ambienti sono andate manifestandosi logiche di vario genere, incluse quelle di livello egemonico. I fatti del Nord Africa, da quel che è emerso dalle cronache, non sembrano invece aver colto di sorpresa la Casa Bianca e il Pentagono, che sin da subito hanno mostrato l’intenzione di intervenire sui processi in atto. Ma per quali scopi? A prescindere da tutto, l’arroccamento degli Stati Uniti in Libia, anche a costi di vite umane elevatissimi, come in Afghanistan e in Iraq, suggerisce un disegno strategico oltre che economico, di controllo dell’area, atto a impedire, verosimilmente, che nei paesi interessati dalla rivolta popolare, dal Maghreb al Medio Oriente, possano prevalere nel medio periodo politiche antiamericane. E tale linea, adottata in tutte le regioni del globo, appare compatibile con le mire degli Stati europei interventisti. La Francia governata da Sarcozy, finita negli ultimi anni zero dietro l’Italia per Prodotto interno lordo, tanto più attirata quindi dalle risorse energetiche del Nord Africa, e non solo, ha motivi per rinegoziare il proprio ruolo di potenza. L’Italia di Berlusconi, come ostentano le testate governative, ritiene che l’adesione al conflitto sia un passo necessario, per poter contare in Europa e far valere il settimo posto tra le potenze industriali del globo. L’Inghilterra di Cameron, che ha registrato nel biennio 2008-2009 un vero e proprio crollo del Pil, da cui non riemergerà facilmente, ha buoni motivi per ampliare i propri interessi economici nel Nord Africa e, soprattutto, in chiave geopolitica, per riprendere quota lungo la regione mediterranea, dopo oltre cinquanta anni dall’umiliazione di Suez. Ma forse, come è accaduto in Iraq e in Afghanistan, tali convitati, pur destinati a vincere in poco tempo la guerra convenzionale, hanno fatto male i conti. La presa di distanza della Germania di Angela Merkel appare al riguardo significativa, come in Italia la dissociazione della Lega di Bossi, che pure partecipa al governo. In definitiva, si vorrebbe stabilizzare l’area sotto l’egida delle potenze occidentali, ma l’esito potrebbe essere quello di un disordine lungo e tragico, alle porte dell’Europa, e, forse, dentro l’Europa.  (Carlo Ruta in sintesi. Portato alla nostra attenzione da Giovanna Corradini. Ruta è già autore di  “Guerre solo ingiuste” (Mimesis edizioni)

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L’Italia e la scelta del nucleare

Posted by fidest press agency su lunedì, 14 marzo 2011

Il tremendo terremoto e il conseguente tsunami che ha segnato per sempre il Giappone, sta creando un rischio di una nuova Chernobyl, per i pericoli derivati da tre centrali nucleari nipponiche a rischio fusione. In merito è intervenuto Vincenzo Galizia Presidente nazionale del Fronte Verde Ecologisti Indipendenti che ha dichiarato: «Solidarietà al popolo giapponese per l’immane disastro subito, ora speriamo che non deve subire anche i rischi di contaminazione nucleare, una grave crisi che potrebbe portare conseguenze devastanti. L’incidente della centrale di Fukushima, deve far riflettere anche il nostro governo sugli enormi rischi del nucleare, come dimostra il caso giapponese, anche i reattori moderni sono potenzialmente insicuri. Per questo il governo italiano deve attentamente riflettere sulla scelta di un ritorno al nucleare. Noi del Fronte Verde, da sempre antinuclearisti, chiediamo a Berlusconi e al suo governo di lasciar perdere la politica dell’atomo e rilanciare la strada delle rinnovabili in particolare dell’energia solare» conclude la nota del Presidente del movimento ecologista.

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Il governo affossa il fotovoltaico

Posted by fidest press agency su lunedì, 7 marzo 2011

“Il governo di centrodestra azzoppa uno dei pochi settori che stavano continuando a crescere nonostante il drammatico momento dell’economia, il fotovoltaico”. È l’allarme lanciato dal Partito Democratico forlivese e dal segretario territoriale Marco Di Maio, a seguito dell’approvazione del decreto Romani. A questo punto il settore vive una situazione di grandissima incertezza. “Tantissimi imprenditori del nostro territorio – prosegue Di Maio – ci stanno telefonando allarmati per le conseguenze di questa scellerata decisione del governo, che mette a rischio posti di lavoro e frena un settore il cui valore è stimato in 10 miliardi di euro. Una decisione oltretutto in  controtendenza con tutti i principali paesi europei che stanno aggiungendo risorse anziché sottrarne, per raggiungere gli obiettivi che l’Europa ha fissato per il 2020. In Germania, ad esempio, sono già stati istallati più 16mila MegaWatt di impianti (contro i 7mila italiani) e si conta di arrivare al 2020 a 52mila MegaWatt”.Cosa succede ora? “Il Governo – spiega il segretario del PD forlivese – ha fissato al 30 maggio il termine ultimo per il finanziamento degli impianti. Quindi tutti coloro che saranno allacciati alla rete dal 1° giugno in avanti saranno sottoposti ad un regolamento di cui ancora non si ha traccia e che dovrebbe essere presentato dal ministro Romani entro il 30 aprile. E visto che lo stesso ministro è colui che ha firmato il provvedimento attuale, non c’è tanto da stare tranquilli”. “Tutte le forze politiche, gli enti locali, le forze economiche e sociali del nostro territorio – conclude Di Maio – devono attivarsi per evitare questo disastro economico, che porta con sè la più totale incertezza per centinaia di imprese, migliaia di famiglie e lavoratori”.

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