UTET, Collana “Dialoghi di Pistoia” diretta da Giulia Cogoli 132 pp, 15 euro. Questo libro vuole essere un contributo non solo alla comprensione di un concetto che è quello della pluralità eco-sistemica o multi-naturalista, ma soprattutto vorrebbe essere un manifesto per la presa di coscienza che per cambiare il mondo da un punto di vista ecologico e sociale, per salvarci dal disastro è necessario un modo differente di guardare e pensare alla “natura.” La natura non è un luogo ma un organismo vivente e noi come specie ne facciamo parte, sembra una piccola cosa da comprendere ma è fondamentale per ripensarci nel qui e ora. Dobbiamo pensarla come il sistema totale degli esseri viventi, animali e vegetali, e delle cose “inanimate”, una totalità che include evidentemente anche la nostra specie. È giunto il momento di fondare un’ecologia dove tutto il vivente, uomo compreso interagisca senza frontiere di specie. La natura pensata e vissuta non come separata dall’uomo ma come un insieme di relazioni, il paesaggio è prima di tutto un luogo di “vite” da rispettare e comprendere, non un oggetto da museificare, patrimonializzare e mercificare. La natura è un intreccio di vite, non uno slogan per rilanciare l’economia in crisi. Di fatto da come abitiamo e pensiamo l’ambiente, da come sapremo narrare e costruire nuovi modi di abitare possiamo cambiare il mondo.
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Andrea Staid: Essere natura
Posted by fidest press agency su mercoledì, 2 novembre 2022
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Essere natura di Andrea Staid
Posted by fidest press agency su martedì, 25 ottobre 2022
Questo libro vuole essere un contributo non solo alla comprensione di un concetto che è quello della pluralità eco-sistemica o multi-naturalista, ma soprattutto vorrebbe essere un manifesto per la presa di coscienza che per cambiare il mondo da un punto di vista ecologico e sociale, per salvarci dal disastro è necessario un modo differente di guardare e pensare alla “natura.” La natura non è un luogo ma un organismo vivente e noi come specie ne facciamo parte, sembra una piccola cosa da comprendere ma è fondamentale per ripensarci nel qui e ora. Dobbiamo pensarla come il sistema totale degli esseri viventi, animali e vegetali, e delle cose “inanimate”, una totalità che include evidentemente anche la nostra specie.È giunto il momento di fondare un’ecologia dove tutto il vivente, uomo compreso interagisca senza frontiere di specie. La natura pensata e vissuta non come separata dall’uomo ma come un insieme di relazioni, il paesaggio è prima di tutto un luogo di “vite” da rispettare e comprendere, non un oggetto da museificare, patrimonializzare e mercificare. La natura è un intreccio di vite, non uno slogan per rilanciare l’economia in crisi. Di fatto da come abitiamo e pensiamo l’ambiente, da come sapremo narrare e costruire nuovi modi di abitare possiamo cambiare il mondo.Se leggiamo un giornale, accendiamo la radio o il televisore, se scorriamo la home dei nostri social, sapremo facilmente che alluvioni, terremoti, siccità estrema, frane, tornadi, bufere sono all’ordine del giorno in tutto il pianeta. Quello che invece spesso ci viene celato è che è proprio il nostro stile di vita ad aver distrutto il pianeta. I nostri consumi, le nostre pratiche sono insostenibili e cominciamo tutti a pagarne le conseguenze. Siamo nell’era dell’Antropocene, l’era geologica attuale nella quale noi animali umani (soprattutto occidentali), con i nostri iperconsumi e stili di vita abbiamo modificato interi territori in modo strutturale, e inquinato acqua, aria e terra causando cambiamenti climatici senza precedenti. Ora dobbiamo fare i conti con tutto questo. Il mio libro vuole essere non solo un contributo alla comprensione di un concetto che è quello della pluralità ecosistemica o multinaturalista, ma soprattutto un manifesto della presa di coscienza che per cambiare il mondo da un punto di vista ecologico e sociale, e per salvarci dal disastro, è necessario un modo differente di guardare e pensare alla “natura”.
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Il cammino dell’essere umano
Posted by fidest press agency su martedì, 1 settembre 2020
Esso non deve essere, necessariamente, di violenze e di soprusi. Se ci esprimiamo in tal senso, vuol dire che apparteniamo a una cultura e a una civiltà superata. È una conseguenza, a ben pensarci, che non dobbiamo né al nostro passato né riflettere nel nostro futuro. È un residuato del nostro presente. Lo portiamo con noi, ma ci vergogniamo ogni volta che le nostre coscienze sono chiamate alla ragione e al riconoscimento degli autentici valori della vita. La cura della nostra persona non ci appartiene in esclusiva, essa fa parte dei nostri doveri, di quelli d’ospitalità per chi è dentro di noi, per la fiamma che ci governa e presiede.
Sta a noi, nella nostra sensibilità, cogliere il messaggio nella giusta misura e renderci conto che esso è il faro della nostra vita e che nessuna procella potrà prenderci di contropiede e farci sbattere sulle coste accidentate e spingerci verso la deriva. Ma attenzione. Non è un invito narcisistico. Non si ama solo ciò che è dentro di noi, ma tutti gli esseri viventi partendo dal loro interno, dalle loro individualità, dal modo d’esprimersi e di procedere. Perché, insieme, siamo chiamati all’unità, quale fine ultimo di tutte le cose. Sono ancora una volta i profeti, i martiri e i saggi, i nostri fari. Basta saper cogliere nel modo dovuto e al tempo giusto il segnale. (Riccardo Alfonso)
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Freud e la religione
Posted by fidest press agency su venerdì, 15 Maggio 2020
A questo punto non sarei del tutto esaustivo se trascurassi ciò che la religione ha rappresentato per l’essere umano nella storia di tutti i tempi e che Freud arriva a finire che si tratta di un’alienazione quando si spostano e si proiettano paure e speranze in un aldilà fantastico e astratto. È un modo di allontanarsi dalla realtà. Come prima di lui Schopenhauer e Nietzsche, e come il dott. Laurence avrebbe fatto dopo di lui, Freud interpreta l’essenza conoscitiva della religione come dislocazione del sentimento emotivo nei confronti dell’autorità. Oltre a far risalire la religione a sentimenti infantili di dipendenza, Freud l’accusava di essere una preoccupazione fondamentalmente femminile. Gli interessava far risalire il pathos dell’uomo religioso, che è costretto come una donna, all’obbedienza incondizionata. Essere religiosi, nel modo inteso da Freud, significa essere passivi, docili, dipendenti, cioè manifestare dei tratti tipicamente femminili. La religione, secondo Freud, nasce dal fomentare un sempre crescente “senso di colpa”. “Quando una tendenza istintiva è repressa, disse Freud in “Il disagio nella civiltà”, i suoi elementi libidici si trasformano in sintomi e le parti aggressive in senso di colpa”. Di tanto in tanto i clan celebrano delle feste religiose, durante le quali i membri della famiglia totemica riproducono con danze rituali i momenti caratteristici del loro totem.
Scrive Kereny: “Lo scopo di Freud era precisamente quello di soddisfare l’uomo irreligioso che pure s’interroga sul fenomeno, così difficile da comprendere, delle religioni, e questo era appunto il caso dello stesso Frazer e di Freud. Ma la storia dell’umanità non presenta né l’evoluzione “magia-religione-scienza” che Frazer pretendeva, né un modello puro ed incontaminato, sicché Frazer fu costretto a costruire con semplificazioni assai più spinte di quelle alle quali ricorre Bachofen nella sua teoria sull’evoluzione della famiglia”. Per Kereny: “Freud non vide, come non lo notò Frazer, che i loro modelli per l’origine della religione, che avrebbero dovuto spiegare addirittura il grande sacrificio del Cristianesimo, equivalgono a generalizzare a tutta l’umanità, una nevrosi preistorica”.
Un altro elemento che Freud non colse, perché gli mancava la visione d’insieme necessaria, è che una religione totemistica con tutti i suoi contrassegni caratteristici, totem, tabù ed esogamia, non è dimostrabile in nessuno dei popoli che ebbero parte, in un qualche periodo nel maturare della nostra civiltà occidentale caratterizzata dall’evoluzione, né presso gli indogermani né presso i mesopotamici, e neppure presso gli egizi. E neppure presso gli israeliti. Sia Schopenhauer sia Freud davano per scontata l’assurdità della credenza religiosa agli occhi degli uomini razionali. Oggetto della discussione è semplicemente il problema se la fede sia necessaria per controllare la maggioranza non illuminata, oppure se il valore della religione, che è comunque in declino, se non sia stato sopravvalutato e non costituisca, in realtà, una forza che contrasta con le finalità illuministiche: ragione, progresso, effettivo miglioramento dell’umanità. Il ragionamento del Demofilo di Schopenhauer è molto simile a quello dell’interlocutore di Freud in “L’avvenire di un’illusione”. Il Demofilo dice: “Non hai idea di quanto sia sciocca la maggior parte della gente”. Il “Dialogo” di Schopenhauer uscì nel 1851, quello di Freud nel 1928. Così commenta Jacquard: “Freud pensa che la religione non possa essere altro che una fase necessaria nell’evoluzione umana, fase paragonabile all’adolescenza”. Freud ha affermato nelle sue analisi, che vietando l’uso delle facoltà critiche in una particolare direzione, si determina un abbassamento generale dell’acume critico del soggetto, danneggiando le capacità razionali.
Freud ammette, d’altra parte volentieri, che le sue “speculazioni” non hanno parte integrante del sistema analitico. Ciò vuol dire che è possibile usare la metodologia (psicoanalitica) anche al servizio dell’opinione opposta. È quello che farà Oscar Pfister nel libro “L’illusione di un avvenire”.
Ma Freud non è il solo né il primo ad avanzare l’idea di un’anima collettiva. Lo sostennero sia Durkeim, della scuola sociologica francese, sia Wundt. Commenta in proposito Fromm: “oltre che un’illusione, dice Freud in sostanza, la religione è un pericolo, perché tende a santificare certe cattive istituzioni umane con cui si è sempre alleata. La religione, inoltre, tende a impoverire l’intelligenza, insegnando a credere a un’illusione e proibendo il pensiero critico”. Non c’è dubbio che, come asserisce Jung, inflazionare in questo modo la portata del complesso di Edipo sul piano della cultura e dell’inconscio collettivo, può significare tendere ad eliminare quel fattore religioso che ha tanta parte nei livelli più alti della personalità umana.
Da parte mia sono convinto che il fattore religioso sin dai primordi della vita ma ancor più nel momento in cui il primo essere umano ha alzato gli occhi alle stelle vi sia stato, nel comune sentire, un avvertimento religioso. Fu il primo desiderio per capire ciò che eravamo manifestamente in tutti i nostri comportamenti. In qualche modo ci richiamavano a una particolare “religiosità”. Non certo a caso i recenti studi comparati dell’antropologia culturale relativi alle simbologie superiori delle èlite del grande sciamanesimo arcaico, risultanti dai graffiti preistorici, tutti analoghi nei tre continenti antichi e studiati da Eliade, da Leroi-Gouhran, da Marsach e dalle loro scuole rivelano un concetto religioso profondamente avvertito e immaginifico nelle sue rappresentazioni murarie. Lo stesso dicasi per i cosiddetti fossili viventi culturali delle epoche arcaiche. Il loro “sentire e udire” cosmico è espresso dai simboli superiori delle grotte e da cui discendono tutte le tradizioni che ritroviamo nei millenni successivi. Inoltre, i grandi problemi delle origini si sono fatti molto più complicati riguardo varie fasi che si affacciano, man mano che si accrescono gli studi neurologici. (Riccardo Alfonso)
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Essere carabinieri
Posted by fidest press agency su giovedì, 5 marzo 2020
Quando i limiti che l’Ordinamento impone ai militari confliggono con il principio fondamentale di sviluppo della personalità, il diritto di famiglia o di affettività…. quando agiscono in modo da diminuire la sua sicurezza… credo che questi limiti vadano aggiornati, rivalutati… insieme a chi si occupa di tutela del personale.In tema di “ricongiungimento familiare” del personale delle Forze Armate e di Polizia, il Comando Generale ha recentemente sostenuto (Commissione Affari costituzionali e Difesa riunite) che il legittimo interesse al conseguimento; le legittime aspettative sono adeguatamente contemperate. L’ipotesi avanzata dal legislatore di fissare un “diritto” non sarebbe funzionale, delimiterebbe eccessivamente il potere discrezionale in materia di impiego e determinerebbe un esodo verso le regioni del sud.Io credo che la parola “famiglia”, nell’Arma, debba essere riempita di maggiori contenuti; credo che la scelta di fare il Carabiniere meriti maggiore considerazione. Non ci possono essere alibi a giustificare questa compressione dei diritti fondamentali che la Repubblica riconosce agli altri cittadini. Il diritto all’affettività, il diritto alla famiglia. Il diritto a poter sviluppare la propria personalità. Il diritto a poter conciliare tempi di vita e di lavoro.Credo che il paventato esodo verso le regioni del sud sia indice di una strategia sbagliata del Comando Generale e, in Commissione, si è messa in discussione la stessa “Unità d’Italia”. Ritengo necessario agire nel rispetto della Legge che impone di operare di concerto con la Rappresentanza Militare, su tutte le materie e ogni volta che sono ipotizzate modifiche o innovazioni rispetto le Circolari emanate sulle materie di competenza della Rappresentanza Militare ed ora anche dei sindacati dei Militari.Il Comando Generale dell’Arma tende ancora ad eludere il tema, a riconoscere spazi solo sulle materie ed ai temi originati dal COCER (e non sugli altri). Nelle decisioni del Comando Generale dell’Arma non vi è mai stato un “vero coinvolgimento” della Rappresentanza militare (tutta) sulle materie di competenza. L’auspicio è, ovviamente, che i sindacati dei militari riescano presto ad ottenere il ruolo attivo e di partecipazione che gli competono nelle decisioni che riguardano la “vita nell’Arma”. Nell’ottica di ricercare costantemente soluzioni che, pur rispondendo alle elevate aspettative che la società ripone nel ruolo istituzionale ricoperto da ciascun Carabiniere, possa migliorare le condizioni di vita mediante interventi mirati verso i rilevanti specifici fattori di rischio (episodi di suicidio) perché, è noto, il 50% dei casi è riconducibile anche alle relazioni interpersonali quando sono compromesse a causa di “motivi di salute” anche dei familiari che sono spesso distanti dalla Sede di servizio (tema dei trasferimenti)
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La conflittualità permanente tra ciò che appare e ciò che è
Posted by fidest press agency su giovedì, 2 gennaio 2020
E i conflitti che l’uomo ha dovuto affrontare non sono stati solo quelli contingenti, ma anche di natura ideale come il desiderio di essere libero, di costruirsi la propria vita modellandola secondo i propri gusti e personali inclinazioni e di ricercare un modo, il meno cruento possibile, per poter coesistere con i propri simili accordando, in tal modo, le proprie inclinazioni con quelle degli altri. Ecco perché i comportamenti dell’uomo e di tutto il creato si somigliano e si integrano nel bene e nel male, hanno una loro logica spiegazione anche nella violenza, nell’arbitrio e nel suscitare sentimenti di avversione o di attrazione fatale. E non vi è cultura che possa soddisfarci e ricondurre ad un unicum queste emozioni, apparentemente scomposte, degli esseri viventi se non ritroviamo una nostra più autentica identità.Ed allora quando parliamo di uno scienziato o di un pecoraio noi dobbiamo pensare che prima di tutto dietro quella faccia e quel corpo vi è un essere umano e non il mestiere che esercita. Entrambi appartengono al comune esercito che si avvia sulla strada del futuro dando un contributo temporale alla sua costruzione e definizione per quanto fatiscente e superficiale possa apparire nelle loro soggettive funzioni. Ecco perché noi guardiamo con diffidenza chi si autodefinisce un saggio o un dotto ed esibisce i suoi titoli. Non è certo un pezzo di carta e certi studi a dare all’uomo una patente di onorabilità. Essa si conquista sul campo e sul modo come si mette a frutto la sua capacità all’apprendimento e le fortune che lo attraversano per metterle a frutto. Quel pastorello di nome Giotto non sarebbe andato molto al di là nel disegnare i suoi cerchi perfettamente rotondi se un giorno non si fosse imbattuto con l’uomo giusto che ne avrebbe esaltate le doti e….così potremmo dire di molti altri personaggi. Ma a questo proposito dovremmo fare una distinzione tra gli uomini cosiddetti di successo. Tra coloro che lo perseguono perché, senza di esso, hanno l’impressione di non essere nessuno e coloro che, raggiunti dal successo senza averlo cercato, ne possono fare tranquillamente a meno. I primi di gran lunga più numerosi si riducono con il tempo a dei poveri diavoli: sono condannati a spiare ossessivamente ogni oscillazione della fortuna, a trepidare davanti ad ogni tiepidissimo segno di sfavore.I secondi disdegnano qualsiasi rapporto di servitù e di dipendenza con gli altri simili in specie se costoro si sommano in opinione come in una sorta di tribunale che decide del valore altrui. E se ben consideriamo l’insieme di tali rapporti ci rendiamo conto che l’uomo sarà completo solo se riuscirà a valutare da solo i momenti cruciali della propria esistenza, anche se nel fare talune scelte sbaglia. Il confronto che può seguirne con i propri simili deve essere impostato in condizioni paritarie. Esso deve maturarsi ed evolversi attraverso una riflessione personale, una capacità di discernimento propria e non condizionata da fattori esterni privi di logica e di obiettività di giudizio. E sembra quasi una favola germinata da una creatura dalla mentalità troppo accesa che il principio antropico, dal greco “ciò che riguarda l’uomo”, abbia come presupposto un piccolo punto in un mondo quasi senza confini. Solo se usciamo da questi schemi convenzionali l’individuo sarà in grado di portarsi ad un livello più alto delle potenzialità insite nella propria specie. (Riccardo Alfonso)
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Le Gallerie degli Uffizi annunciano la mostra Antony Gormley: Essere
Posted by fidest press agency su martedì, 27 novembre 2018
Firenze dal 26 febbraio al 26 maggio 2019 – riunirà alcune opere di Antony Gormley, realizzate in diversi materiali e dimensioni, che esplorano il corpo nello spazio e il corpo come spazio. La nuova, ampia sala al piano terreno del museo, dove la luce naturale si diffonde in dodici nitidi spazi con copertura a volta scanditi da sei pilastri in pietra e privi di pareti interne, accoglierà dodici opere dell’artista. Altre due saranno collocate negli spazi della collezione storica, mentre un’altra sarà installata sulla terrazza degli Uffizi.Al centro della mostra il dialogo in atto tra Passage e Room, due sculture realizzate a trentacinque anni di distanza l’una dall’altra. Entrambe affrontano la questione dello spazio del corpo: Passage (2016) è un tunnel in acciaio Cor-Ten dalla forma umana lungo 12 metri che potrà essere percorso dai visitatori; e Room (1980) – una serie di abiti dell’artista tagliati in un nastro continuo largo 8 millimetri che definisce un recinto quadrato di 6 metri per 6, non accessibile al pubblico. Si tratta dunque di un dialogo per contrasto fra queste due opere, della contrapposizione tra stasi e movimento, fra spazio immaginativo e reale.
La mostra proporrà diverse nuove opere realizzate per l’occasione, tra cui Veer II (2018), un’evocazione tridimensionale in ghisa di un teso sistema nervoso al centro del corpo, a grandezza naturale, e Breathe (2018), un’opera espansiva di grandi dimensioni ricoperta di piombo che applica i principi cosmici del Big Bang alla singolarità di un corpo soggettivo. La relazione con il prezioso patrimonio culturale della città, e con gli Uffizi in particolare, è affidata alle due Another Time una delle quali sarà esposta tra le sculture classiche in galleria mentre l’altra verrà collocata nella terrazza degli Uffizi, prospiciente piazza della Signoria. Si è infine voluto cercare un terzo rapporto con la collezione storica degli Uffizi attraverso una sala dedicata al dialogo tra l’Ermafrodito dormiente, copia romana di età imperiale da un originale ellenistico del II secolo a.C. poggiante su un basamento, e il blocco Settlement (2005) che abbraccia invece il pavimento. Discostandosi dall’idea della mostra come spazio per la contemplazione estetica o per il godimento della narrazione o della rappresentazione, Essere sollecita la nostra partecipazione attiva come connettori tra oggetti definiti e spazi aperti in cui massa e vuoto, buio e luce, duro e morbido coinvolgono la presenza dello spettatore nello spazio.
http://www.antonygormley.com
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L’Italia unitaria tra il dire e l’essere
Posted by fidest press agency su venerdì, 17 agosto 2018
E’ diventata una specie d’operazione chirurgica avvenuta all’insaputa del paziente. Dopo gli effetti post-operatori questi si è accorto che l’appartenenza o meno al regno borbonico o a quello sabaudo nulla ha cambiato alla propria condizione sociale. Povero era e povero è rimasto. Illuso era e illuso resta per una crescita economica ed industriale promessa dai soliti imbonitori di turno e persino pagata in anticipo, e regolarmente disattesa. Penso alla Casa del Mezzogiorno.
Fu un progetto sbandierato per decenni e ora si rende conto, finalmente, che quest’illusione è la sola realtà che lo fa convivere con il suo passato. L’Italia è stata a lungo mutilata nella sua identità nazionale. Ricordiamo le invasioni barbariche, Brenno, Pirro, Annibale, le disfatte alla Trebbia, Trasimeno e a Canne, le irruzioni galliche con il conseguente assedio di Roma, le lotte civili dei Gracchi fino a Mario e Silla, la corruzione, il dispotismo, l’impero in balia dei pretoriani, il suo triste dissolvimento, le successive invasioni di Attila con gli Unni, dei Goti, dei Greci con a capo Bellisario e Narsete, dei Longobardi con Alboino e di Franchi, la inframmettenza del potere temporale dei Papi effettuata da Pipino e da Carlo Magno, le guerre e le feroci conquiste fatte dagli angioini, dagli spagnoli, le devastazioni, i vili saccheggi e gli incendi subiti al tempo del Barbarossa. Altre mortali ferite furono inferte dalle guerre avvenute fra Carlo V e Francesco I, le ignominie dei Borgia, le lotte fra le fazioni Guelfa e Ghibellina. Quant’acqua è passata sotto i ponti dell’Arno sino a sfociare in mare quando Dante, con il fervore della propria fede, auspicò l’unità d’Italia? Questi con Macchiavelli, Mazzini e molti altri incarnarono quel vaticinio in apostolato. Oggi dovrebbero rivoltolarsi nelle loro tombe per assistere allo scempio di una nazione che si volle unita senza ideali e senza consentirle di sbocciare in una coscienza politica comune. (Riccardo Alfonso)
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Il mondo è diviso in due movimenti ideologici: quello che è e quello che ha
Posted by fidest press agency su mercoledì, 11 aprile 2018
Quando leggo i dati del rapporto Oxfam per il World Economic Forum 2018 lo sconforto mi lascia profondamente depresso. Abbiamo creato una società “mostruosa”.
Basta leggere questi scarni dati per avere la misura del male che ci stiamo facendo: “Le 42 persone più ricche del mondo possiedono un patrimonio pari a quello dei 3,7 miliardi di persone più povere. Nel corso del 2017, ogni due giorni una persona è diventata miliardaria, mentre il 50 per cento più povero della popolazione mondiale non ha visto aumentare neppure di un centesimo la ricchezza a sua disposizione. Il divario tra ricchi e poveri nel mondo continua ad aumentare e ha raggiunto ormai squilibri insostenibili sia da un punto di vista etico che economico. Sebbene sia vero, infatti, che il numero di persone costrette a vivere in condizioni di povertà estrema è stato dimezzato tra il 1990 e il 2010, “le disuguaglianze sono aumentate nello stesso periodo: 200 milioni di persone in più avrebbero potuto essere salvate dall’indigenza”. A questo punto non credo si possa aggiungere altro se non sopraggiungesse forte e cocente la rabbia su questo dramma che condanna senza appello la stragrande maggioranza della popolazione mondiale ad un presente e ancor più un futuro senza un briciolo di speranza per tempi migliori.
E mi chiedo: ma di che pasta siamo? E come è possibile che così pochi soggetti riescano a controllare e a condizionare tantissime persone fino a costringerle a vivere nella miseria pur facendo loro nutrire una speranza per un avvenire migliore? E’, chiaramente, una palese illusione. E’ un miraggio sotto il sole cocente del Sahara eppure sono numerosi coloro che lo credono reale.
La nota dolente è anche un’altra. E’ che la cultura è messa in ginocchio dall’ignoranza degli opportunisti che pur di conservare il loro primato non si fanno scrupolo di adottare tutte le iniziative necessarie per rendere le masse asservite ai loro poteri. Ed è così che la lotta si rende più sofisticata ed insidiosa passando, dai campi di battaglia dove il numero dei contendenti può fare la differenza, alle applicazioni tecnologiche sempre più avanzate dove il fine ultimo è quello del controllo delle menti per renderle docili ai loro voleri. In questo senso si deve prefigurare il furto di milioni di identità per assoggettarle alla dipendenza e alla cancellazione delle loro volizioni per sostituirle con quelle delle forze dominanti: O tempora, o mores! (Riccardo Alfonso)
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Il nuovo modo di essere scuola
Posted by fidest press agency su giovedì, 22 febbraio 2018
Roma Sabato 24 febbraio 2018 Università degli Studi Roma3, via Silvio d’Amico 77 (dalle 10 alle 17) 3.000 docenti capovolti in tutta Italia, 4.000 associati, 50.000 iscritti al gruppo Facebook, 900 partecipanti ai webinar settimanali: questi sono alcuni dei numeri di Flipnet, l’Associazione per la promozione della didattica capovolta, metodologia che sta rivoluzionando il modo di fare scuola in Italia e in molti paesi del mondo.Per scoprirla, sperimentarla e implementarla, sabato 24 febbraio a Roma presso l’Università degli Studi Roma3 (via Silvio d’Amico, 77) si terrà il IV convegno internazionale di didattica capovolta dal titolo “Collaborare per imparare”. Il convegno sviluppa la competenza sociale e civica, sesta delle competenze europee per l’apprendimento permanente, indicate nella Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio (G.U. dell’Unione Europea, 18 dicembre 2006), recepita dagli Stati membri, inclusa l’Italia.
In che modo? La didattica capovolta (flipped classroom in inglese) è una metodologia innovativa d’insegnamento che mira a coinvolgere gli studenti nelle attività didattiche tramite l’apprendimento cooperativo, che consente loro di esercitare e sviluppare le abilità relazionali, comunicative e negoziali utili non solo a scuola, ma nei più diversi contesti sociali.
Mette la tecnologia al servizio dell’apprendimento, rendendolo così più “semplice”, dinamico e qualitativamente migliore. Se a scuola la lezione viene coadiuvata dall’uso di tablet e altre tecnologie, a casa – e non solo… ovunque vi sia una connessione internet! – gli alunni possono rivedere la lezione in podcast, capire meglio ciò che in classe non hanno appreso e condividere online con i propri compagni, dubbi, difficoltà e risultati.L’apprendimento migliora perché i ragazzi sono più motivati e il docente ha più tempo, in aula, per occuparsi dei bisogni di ciascun alunno.“Che mondo troveranno i nostri figli quando termineranno i loro studi, lo possiamo prevedere?” – si interroga Maurizio Maglioni, presidente dell’Associazione Flipnet. “Dobbiamo assolutamente evitare che fra quindici anni, loro ci chiedano il perché li abbiamo preparati a vivere in un mondo che non esiste più… Allora il nostro progetto è: attività, lavoro cooperativo, sport, benessere, creatività e bellezza, natura e digitale.” A parlare di tutto questo la mattina, confrontando le esperienze nei più diversi campi e presentando le best practices, docenti ed esperti italiani e stranieri, come: Dario Ianes e Maurizio Maglioni, che presenteranno il nuovo saggio “Capovolgere la scuola”, una proposta educativa nuova, inclusiva ed emozionante, vicina alle reali esigenze del bambino e del ragazzo del ventunesimo secolo che mal sopporta il sapere mnemonico e l’ascolto passivo; Alessandra Rucci, una dirigente scolastica controcorrente che dimostrerà come si può cambiare la scuola unendo la leadership comunicativa ed empatica alla capacità di cogliere ogni occasione di miglioramento; Daniela Di Donato, che farà raccontare a un gruppo di ragazzi la loro esperienza con la classe capovolta; Marika Toivola e Domingo Chica Pardo che illustreranno i risultati del flipped learning nei loro paesi, Finlandia e Spagna.
Nel pomeriggio sarà la volta dei workshop laboratoriali: 7 workshop che offrono un ventaglio di esperienze e riflessioni: il rapporto tra la tecnologia e le relazioni interpersonali (Andrea Nicolosi), la realtà virtuale nella didattica (Cristina Braila), il dibattito argomentativo (Grazia Paladino), i ponti tra letteratura, poesia e i problemi reali (Francesca Di Marco), la riflessione sulle strategie per raggiungere la felicità (Vanessa Sitzia e Rita Faustinella), l’apprendimento capovolto delle lingue straniere (Irene Bressan) e lo sviluppo del pensiero logico, sociale ed emotivo con i mattoncini Lego (Cecilia Staiano).I docenti avranno modo di imparare un nuovo modo efficace di fare, anzi di essere scuola assieme ai propri studenti, e di acquisire strumenti validi da utilizzare in classe.Per partecipare è necessario iscriversi. È possibile utilizzare la Carta del Docente.
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Essere e logos in Tommaso d’Aquino
Posted by fidest press agency su venerdì, 11 novembre 2011
Roma 14 novembre 2011 alle 10:30, presso l’Auditorium Giovanni Paolo II dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (via degli Aldobrandeschi 190), si terrà la Lectio Magistralis, con ingresso libero, del Prof. Alessandro Ghisalberti, professore di Storia della filosofia medievale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, sul tema “Essere e Logos: l’incontro di rivelazione e filosofia in Tommaso d’Aquino”. L’occasione è offerta in seguito alla istituzione presso la Facoltà di Filosofia dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma della Cattedra Marco Arosio di Alti Studi Medievali, con l’obiettivo di promuovere gli studi medievali ed immettere nuova linfa nella cultura italiana e internazionale. Tra le altre attività della Cattedra, è stato istituito il Premio Marco Arosio, che intende premiare una monografia, inedita o pubblicata in Italia nel periodo dall’1 gennaio 2010 all’1 settembre 2011, scritta in lingua italiana da laureati che non abbiano superato i trentacinque anni di età al momento dell’invio della domanda di partecipazione. I contenuti delle opere in concorso ricorderanno gli interessi e le ricerche del compianto studioso e dovranno perciò vertere su istanze filosofiche e teologiche legate al periodo medievale (sec. V- XV) in chiave storica.
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Essere o Avere? Collettiva
Posted by fidest press agency su giovedì, 14 ottobre 2010
Venezia fino al 22/10/2010 Quartiere Cannaregio Ca’ Zanardi Opere di: Salvatore Chessari, Maura Franciosa, Lorena Garcia Mateu, Angelo Giannetti, Giulio Cesare Matusali, Gabriele Morrione, Valentina Tabacchi, Meike Tiedemann, Walter Zuccarini Erich Fromm scrive nel 1976 To Have or To Be?, interrogandosi su queste due modalità essenziali dell’essere umano: l’Avere e L’Essere. La mostra collettiva organizzata e promossa da Ca’Zanardi di Venezia, in collaborazione con Art&fortE LAB, Art&fortE e Spaziottagoni di Roma, si propone di scandagliare attraverso il linguaggio dell’arte questo tema. Perche’ l’aspetto filosofico della questione posta da Fromm sottintende implicazioni e conseguenze concrete e importanti nella nostra società, che meritano di essere colte e tradotte in opere che sono ora proposte al pubblico in due esposizioni in due delle città piu’ belle, affascinanti, cariche di cultura, arte e storia quali sono Roma (17-30 settembre) e Venezia (10-22 ottobre, Palazzo Ca’ Zanardi), quest’ultima in concomitanza con Biennale Architettura. L’evento prevede la collaborazione con la Reale Canottieri Bucintoro e l’associazione Art&salE, portando cosi’ in dote il Patrocinio dell’Assessorato alla Produzione Culturale del Comune di Venezia.
Erich Fromm scrive nel 1976 To Have or To Be? (ed.it. Mondadori, Milano 1977), interrogandosi su queste due modalità essenziali dell’essere umano: l’Avere e L’Essere. Il filosofo di Francoforte osserva come sia la struttura sociale a determinare il sopravvento dell’uno o dell’atro aspetto. (essere o avere)
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Berlusconi tra il suo avere e il nostro essere
Posted by fidest press agency su giovedì, 16 settembre 2010
Lettera al direttore. Quanti anni sono trascorsi? Dieci, venti? No, appena due. Settembre del 2008. Che nostalgia! Era il periodo del benessere per tutti. Lo affermò il Presidente del Consiglio, mentre si trovava a Londra. Come dimenticare? Dichiarò che il nostro Paese era “molto solido, con un alto livello di vita e di benessere”. E a riprova, citò, tra l’altro, il fatto che da noi ci sono “un 83% di case di proprietà, più auto pro capite di ogni Paese europeo, più telefonini e tv che in qualsiasi Paese dell’Ue”. Ora, dopo la crisi, il benessere è svanito, sebbene abbiamo ancora, come allora (che nostalgia!) case di proprietà, auto e telefonini e tv, e forse qualche frigorifero e qualche lavatrice in più. (Francesca Ribeiro)
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Mostra collettiva: Essere o Avere?
Posted by fidest press agency su mercoledì, 15 settembre 2010
Roma (Trastevere) dal 17 al 30 settembre 2010 Galleria Spaziottagoni Via Goffredo Mameli 9, Inaugurazione venerdì 17 settembre ore 18.30 Dal martedì al sabato dalle 17 alle 20 (chiuso domenica e lunedì) Opere di: Salvatore Chessari, Maura Franciosa, Lorena Garcia Mateu, Angelo Giannetti, Giulio Cesare Matusali, Gabriele Morrione, Valentina Tabacchi, Meike Tiedemann, Walter Zuccarini. La mostra collettiva organizzata e promossa da Ca’Zanardi di Venezia, in collaborazione con Art&fortE LAB, Art&fortE e Spaziottagoni di Roma, si propone di scandagliare attraverso il linguaggio dell’arte questo tema. Perché l’aspetto filosofico della questione posta da Fromm sottintende implicazioni e conseguenze concrete e importanti nella nostra società, che meritano di essere colte e tradotte in opere che sono ora proposte al pubblico in due esposizioni in due delle città più belle, affascinanti, cariche di cultura, arte e storia quali sono Roma (17-30 settembre) e Venezia (9-22 ottobre, Palazzo Ca’ Zanardi), quest’ultima in concomitanza con Biennale Architettura. L’evento prevede la collaborazione con la Reale Canottieri Bucintoro e l’associazione Art&salE, portando così in dote il Patrocinio dell’Assessorato alla Produzione Culturale del Comune di Venezia.
Erich Fromm scrive nel 1976 To Have or To Be? (ed.it. Mondadori, Milano 1977), interrogandosi su queste due modalità essenziali dell’essere umano: l’Avere e L’Essere. Il filosofo di Francoforte osserva come sia la struttura sociale a determinare il sopravvento dell’uno o dell’atro aspetto.
In questo lungo e difficile periodo caratterizzato da una crisi economica planetaria a dimostrazione di un sistema ormai saturo e tutt’altro che invincibile, agli artisti sarà richiesto di tradurre questa ampia tematica visivamente, sottoforma di opera artistica, scegliendo liberamente la tecnica da impiegare. Perché, ricorda lo stesso Fromm in un altro suo scritto – L’arte di amare: In ogni attività creativa, colui che crea si fonde con la propria materia, che rappresenta il mondo che lo circonda. Sia che il contadino coltivi il grano o il pittore dipinga un quadro, in ogni tipo di lavoro creativo, l’artefice e il suo oggetto diventano un’unica cosa: l’uomo si unisce col mondo nel processo di creazione.
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Tra l’essere e il sentirsi
Posted by fidest press agency su sabato, 22 agosto 2009
(edizioni fidest: racconti brevi di Riccardo Alfonso) Che cosa significa essere o sentirsi vecchi? Tal-volta m’imbatto in coetanei e mi sorprendo a vederli più incanutiti di me, più dimessi, più rugosi, più tristemente vecchi. Vi sono, poi, altri che sembrano sprizzare “giovi-nezza” da tutti i pori. Fanno sport, si cimentano in gare podistiche, inforcano la bicicletta e si avventurano in tratti non sempre pianeggianti, s’impegnano nello sci di fondo e di discesa e non mostrano stanchezza. A tavola continuano a essere delle buone for-hette e nelle discussioni tengono banco con disinvoltura e la parola pronta alla battuta. Io tra costoro mi trovo nel mezzo, come tra l’incu-dine e il martello. Resto agitato e sento gli anni inesorabili scorrere nelle vene e inquietarle. Il mio cuore batte, ovviamente, ma non ne avverto la gagliardia. E’ stanco poveretto. Mi volto con il pensiero all’indietro e penso a quelli che nella mia gioventù erano i vecchi. Uomini e donne provati dalla fatica, stanchi, ma non domi. Continuavano nei loro lavori di campagna, nella bottega artigiana, nelle piccole faccende di casa. Quante volte passavo distrattamente davanti alla nonna o alla zia seduta a sferruzzare davanti casa e sembravano immerse in quel loro lavoro ai ferri, eppure erano pronte a redarguirti se eri sul punto di compiere qualche marachella, a uscire dal seminato. Si affermava che avessero gli occhi per udire e le orecchie per vedere. Allora non c’era, soprattutto nei piccoli paesi sper-duti tra le montagne del meridione d’Italia, né la radio né l’automobile. Erano cose dei signori di città. L’unico contatto con l’esterno dotato di una certa regolarità era la corriera che collegava la stazione al paese. Erano sette chilometri di strada non asfaltata, piena di buche e a tratti invasa da sterpaglie e, nei giorni di pioggia, le buche si riempivano di acqua diventando più insidiose. I giornali erano una merce rara. Arrivavano un paio di giorni dopo la pubblicazione ed erano destinati ai “notabili” del Paese: il medico, il farmacista, il sindaco, il maestro ed il solito letterato di turno. Qualche altro li leggeva, diciamo di straforo, nei giorni successivi dopo che i legittimi proprietari li avevano sostituiti con le edizioni più recenti. Altri se ne appropriavano per usi meno nobili. Allora non esisteva la carta igienica e per molti del paese la toilette era a cielo aperto. Io che ero considerato un “cittadino” avevo qualche privilegio e il fatto che a ospitarmi era una zia che per anni era vissuta negli Stati Uniti da dove vi aveva fatto ritorno di recente, dopo la morte del marito, avevo anche il vantaggio di abitare in una casa dove i servizi igienici non mancavano. Ma non era la sola caratteristica che mi distin-gueva dagli altri. Mio padre era un ufficiale dell’esercito e diventavo, automaticamente, il membro di una famiglia “borghese” assimilabile a quelle più rispettabili per cui i maggiorenti del paese mi riservavano un’attenzione maggiore. La nostra famiglia, dopo di tutto, aveva una ben stagionata origine “nobile”. Mio nonno era un istruito possidente agrario, di quelli che vivono lontano dai campi, ma da essi ne ricavava una buona rendita, uno dei suoi fratelli era priore nel convento di Campobasso e solo un altro fratello aveva scelto una modesta vita di campagna. D’altra parte la mia permanenza era breve: vi trascorrevo le vacanze estive e, talvolta quelle invernali. Vi andavo e vi ero ospitato perché mio padre era nato in quel paese: Morrone nel Sannio. Oltre alle due vecchie zie, benestanti, avevo altri parenti, ma di modeste condizioni sociali. Una cugina faceva la pecoraia. Aveva, credo, un quindici anni. Ogni giorno la vedevo rientrare verso sera dalla campagna dove portava al pascolo le sue pecore. Era un appuntamento quasi obbligato. Entrambi provavamo piacere a vederci, sia pure per poco. Ovunque mi trovassi in casa sentivo a un tratto, prima lieve, e poi sempre più distinto il suono di una cam-panella. La portava al collo una specie di muflone che, quasi consapevole del suo compito di guida, era in capo al branco e muoveva di continuo la testa con una certa ritmicità. Questa mia parente la ricordo piccola e minuta. Aveva per me una specie di venerazione. Incontrandoci ci sorridevamo e spesso senza proferire parola. Parlavano i nostri occhi. Si sentiva orgogliosa di avere un parente “cittadino”. Allora ero un bimbetto molto vivace e propenso a fare dispetti e a tenere poco da conto l’autorità delle zie che, a loro volta, adorandomi, finivano con il permettermi di fare di tutto, anche se le sgridate iniziali non mancavano. La cugina aveva due fratelli più grandi di lei. Il maggiore, insofferente alla vita di paese e ai lavori di campagna aveva preferito arruolarsi nella polizia ed era stato assegnato in una località abruzzese. Giovane am-bizioso aveva ripreso gli studi e si era diplomato. Ogni tanto lo vedevo ritornare in paese vestito da militare e allora era festa grande anche per me. Mi portava in campagna, mi raccontava della vita di caserma, delle sue esperienze e delle sue amicizie, comprese quelle femminili. Aveva fama d’essere un Don Giovanni. Alla fine mise, come si suol dire, la testa a posto e sposò una compaesana. Non fu, a detta degli abituali ben informati, un matrimonio d’amore. Non permise alla moglie di rag-giungerlo dove era stato assegnato, e la spiegazione la diedero, le solite male lingue, alludendo al fatto che avesse una relazione sentimentale. L’altro fratello lo ricordo meno. Cosa ora posso dire a distanza di tanti anni di quel paese che si dispiega lungo il dorso della mon-tagna e, nella parte più alta, che permette di avere una vista eccezionale tanto che nei giorni di sereno si può persino scorgere il castello Monforte di Campobasso distante una trentina di chilometri in linea d’aria? Ben poco, credo. Tutto mi resta sfumato nel ricordo. Rivado, semmai, a una vista più corta che mi permetteva con facilità d’individuare il corso del fiume Biferno che scorreva a valle a una decina di chilometri e di squadrare quell’indistinto ammasso di case dei comuni limitrofi di Casacalenda e Ripabottoni. Quest’ubicazione divenne strategica durante la seconda guerra mondiale prima per i tedeschi e poi per gli alleati sbarcati a Termoli e che, penetrando nell’en-troterra, si dirigevano a Campobasso. Allora la statale e la stessa strada ferrata avevano un tracciato pieno di curve, fatto di salite e di declivi, mentre oggi il percorso è più breve e lineare, grazie alla “bifernina”. Posso solo annotare che Morrone nel Sannio o Morrone del Sannio, come qualcuno affermava si dovesse dire, fu il paese della mia infanzia e vi racchiuse i ricordi di un bimbo, le amicizie tra coetanei e più gran-dicelli, la prima “cavalcata” sul dorso di un asino mentre scalciava ed io vi restavo con non poca difficoltà attaccato alla soma, le spalate di neve davanti casa, adoperando una pala che somigliava più ad un giocattolo che ad un attrezzo da lavoro, alle scorribande con un gruppetto di ragazzi per le campagne fino al Biferno ed alla prima arrampicata su un albero per raccogliere le olive. Feci persino le cose più pericolose, e chiaramente proibite, come la volta che i tedeschi abbandonarono il paese e si appostarono nei pressi, mentre gli alleati sopraggiun-gevano. Ricordo che mi sottrassi alla sorveglianza delle zie e m’incamminai tra i prati che declinavano verso un tratto pianeggiante nei pressi del cimitero per “vedere” i soldati americani. Rischiai grosso. Mi trovai nel bel mezzo di un fuoco incrociato tra i soldati tedeschi delle retrovie e le avanguardie dei soldati americani che rispondevano agli spari. Si sentiva il crepitare delle mitragliatrici, l’esplosione di bombe a mano e qualche colpo di fucile. A dividere le opposte fazioni vi erano, forse, solo alcuni metri ed io ero tra loro. La mia salvezza la devo, proba-bilmente, alla prontezza di un soldato americano che con un perfetto placcaggio mi stese a terra con lui, mentre intorno a noi s’intensificava il sibilo delle pallottole. Non vi dico cosa successe dopo tra il pianto liberatorio delle zie per lo scampato pericolo, la curiosità dei miei compagni che mi trattavano come un eroe, le donnette del paese che si raccontavano l’episodio con l’inevitabile aggiunta di particolari inventati di sana pianta per rendere più spettacolare il fatto e la festa per l’eroe americano che aveva salvato un bambino incosciente e scavezzacollo. Così ebbi il mio battesimo del fuoco, il mio momento di celebrità, la convinzione d’essere immortale, di saper sfidare il fato e farmi beffa di lui. Molti anni dopo riandando ai momenti di pericolo affrontati e superati quest’idea di saper vincere la morte si rafforzò in me. Ora, invece, non ne sono più sicuro.Di certo ora lo devo agli anni che incalzano e mi rendono vecchio. Mi sento fragile. Avverto una certa predisposizione alla rottura, al danno. “La fragilità d’altro canto è spesso identificata – come scrive il prof. Giorgio Annoni, geriatra, – da parole che esprimono una condizione simile come vulnerabilità o meglio ancora come termine che si contrappone a robustezza”. E’ un qualcosa che a ben considerare si può provare sia pure in brevi tratti della nostra vita quando si esce da giovani da una brutta malattia. Allora posiamo parlare di una fragilità temporanea e reversibile, ben diversa da quella cronica. Si incomincia, probabilmente, più con il sentirsi che con l’essere effettivamente fragili. La circostanza dipende maggiormente dal fatto che si ha, da anziani, un recupero più lento esponendoci a interazioni difficili con il proprio ambiente oltre al fatto che si è scarsamente preparati ad affrontare i fenomeni legati alla lenta evoluzione dei diversi fenomeni interagenti. Mi rendo conto, e penso che tale sensazione sia condivisa dai miei coetanei, che tutto dipende da un processo, quello dell’invecchiamento, irreversibile e che noi mostriamo all’esterno solo i tratti salienti del decadimento fisico, mentre all’interno vi sono dei meccanismi che fanno perdere alle cellule la capacità di riprodursi in maniera ordinata e sincronica pur conservando le proprie caratteristiche strutturali per consentirci, in ogni caso, la sopravvivenza. Questo deficit fisico diventa con gli anni irreversibile. E’ una condizione ovviamente diversa rispetto alla disabilità. Questa indica una perdita delle funzioni, mentre la fragilità indica un rischio e si colloca per lo più a livello di una maggiore predisposizione alle malattie o a livello di un maggior rischio di perdere l’autosufficienza come riflesso dell’insieme delle pato-logie. Sta di fatto che il rapporto con gli eventi tende a subire un mutamento. La persona fragile diviene incapace di mantenere la propria traiettoria vitale di fronte a circostanze che producono stress, in maniera progressiva-mente più difficile anche per stimoli meno gravi. C’è semmai da chiedersi quale intimo rapporto può esistere tra il dentro e il fuori di sé e quanto le modificazioni del microambiente che ci circonda, possono influire sulle proprie condizioni fisiche generali. Vi è anche da considerare un livello superiore di valutazione del proprio stato fisico. Mi riferisco in particolare ai meccanismi che stanno alla base del funzionamento del cervello. Scienze quali la neurobiologia e la psicologia ci hanno descritto con dovizia di particolari i meccanismi di plasticità che caratterizzano il cervello dei mammiferi a tutte le età. Questi permettono l’integrazione degli stimoli esterni e li organizzano in maniera ordinata, in modo da garantire la continuità della funzione. Ne consegue che la riduzione in maniera sensibile della plasticità diventa causa prima del danno fisico che noi subiamo e che può essere una malattia e lo stesso invecchiamento. I livelli plasmatici di cui facciamo riferi-mento possono essere il colesterolo e l’albumina. E’ noto, infatti, che quei soggetti che hanno bassi livelli di cole-sterolo e d’albumina plasmatici sono predittori di un aumento della mortalità nel breve-medio termine, anche indipendentemente da altri fattori. E’ così che l’ipoalbuminemia ci fa ritornare alla citata condizione di fragilità. E’ un dato clinico che di per sé non costituisce il fattore direttamente inducente l’evento negativo a valle, ma diventa la spia di una serie di condizioni biologiche tra loro collegate che portano giustappunto alla fragilità. Così noi ci affacciamo all’ultimo tratto della vita e ci rendiamo conto “fisicamente” che i progressi offertici dalla scienza ci possono aver resi più longevi, ma non ci hanno tolto di dosso la fragilità. Essa si può esprimere in diverse condizioni cliniche. Si può partire da una predisposizione genetica o in seguito ad una malattia grave e potenzialmente invalidante e finire o con una predisposizione a un aggra-vamento di una patologia cronica in atto. Va, tuttavia, precisato che il processo d’invecchiamento non comporta necessariamente la comparsa di malattie, poiché esse sono sempre un evento legato alla presenza di fattori di rischio in grande parte evitabile. Dobbiamo, quindi, partire dal presupposto che l’invecchiamento, rispetto alla malattia, è un fenomeno inevitabile, mentre quest’ultima è modificabile grazie all’educazione sanitaria e alla preven-zione nello specifico. Oggi dobbiamo abituarci a convivere con la vecchiaia nostra degli altri e di chi lo è già da qualche tempo. Basti pensare che nel 1880 in Italia la durata della vita media fosse di trentacinque anni per gli uomini e qualche anno in più per le donne. Dopo 20 anni una persona su tre arrivava ai 60 anni e solo il 6-7% raggiun-geva gli 80 anni. Nel 1990 il 93% delle donne e l’86% degli uomini è arrivato a 60 anni e rispettivamente il 62 e il 39% agli 80. Nello stesso periodo la speranza di vita alla nascita è aumentata di 37 anni per gli uomini e di 31 anni per le donne. Oggi la speranza di vita media alla nascita ha superato gli 80 anni per le donne ed i 74 anni per i maschi. Nel 2000 l’Italia aveva in assoluto, tra tutti i paesi del mondo, la percentuale maggiore di ultrasettantenni (22,3%) mentre, ad esempio, negli U.S.A. tale fascia di popolazione raggiungeva il 16,5%. Dobbiamo dedurre che per la medicina contemporanea la sfida che si presenta è quella di comprendere in modo analitico le caratteristiche di questo fenomeno dell’invecchiamento prolungato rispetto all’aumento contestuale della polipatologia soprattutto nel sesso femminile a partire dagli ultrasessantacinquenni e con successive cadenze quinquennali. In tale assetto la polipatologia esprime di per sé una condizione di fragilità nell’anziano o richiede la concorrenza d’altri fattori (età molto elevata, ridotte funzioni cognitive, indici “biologici” alterati, ecc.). Per finire noi tendiamo a raggrinzire la pelle, a incanutirci, a reggerci sulle stampelle o a vivacchiare in carrozzella, ad avere lo sguardo assente, a imbottirci di medicine, ad avvertire dolori diffusi, ma viviamo, o meglio sopravviviamo. Vale la pena mi chiedo e vi chiedo? Mi riferisco, ovviamente, a quella popolazione d’anziani fragili, caratterizzati da un elevato numero di patologie croniche di diversa gravità. Essi sopravvivono solo grazie agli interventi terapeutici. Qualcuno potrebbe obiettare che costoro sono dei grandi consumatori di risorse e che dovremmo, invece, impiegarle in modo diverso. Non dovremmo farne uso solo per garantirci il mantenimento di una condizione che non ci portasse in alcun caso verso un miglioramento, sia pure relativo. Potremmo dare loro torto? No di certo. Il discorso, tuttavia, apre la porta ad altre riflessioni. Pensiamo all’eutanasia. A questo punto mi chiedo se possiamo avere la percezione individuale del proprio stato da consentirci in piena coscienza di autorizzare un qualcuno a premere l’interruttore per spegnere la luce? E’ raro che ciò possa verificarsi. Nella generalità dei casi dovrebbero essere gli altri a giudicare il momento giusto per la dipartita. Ma chi sono gli altri? Che poteri hanno su di noi? Quale interesse hanno costoro nel farlo o nel non farlo? Quale arbitro può interporsi tra noi e la morte? Chi può conferirgli il mandato? E’ un interrogativo che aggiungo al racconto di una vita. Lo lasciamo pencolare nel buio dei nostri pensieri, lo immaginiamo ardente, provocatore, fomentatore d’altre sfide, dove albergano folletti e gnomi, dove il fantastico si nutre di morte, ma la rende permeabile, eroi-ca, magica e sublime. Dove tutto si distrugge per nulla distruggere. Dove ogni vita ritrova il suo posto, dove può vincere il dolore, il dramma del distacco e ritrovarvi la pace che chiamiamo eterna, spegnendosi. Il nonno che oggi può anche essere tranquillamente un bisnonno e persino un bisavolo finirà i suoi racconti intorno ad un camino virtuale per nipoti e proni-poti meno giovani ma pur sempre affascinati da storie che appartengono al nostro bagaglio comune ma che abbiamo dimenticato o riposte nelle segrete dei nostri pensieri e attendono che altri le disvelino. Resterà anche nei nostri ricordi, fragile nelle ossa ma forte nel pensiero. E’ quello, dopo di tutto, che più conta.
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