Colpisce la memoria e le funzioni cognitive, si ripercuote sulla capacità di parlare e di pensare, può causare altri problemi fra cui stati di confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale. E’ l’Alzheimer. La malattia fu descritta dal medico tedesco Alois Alzheimer agli inizi del secolo scorso e, oggi, è un problema che coinvolge un numero crescente di individui, considerato che è aumentata l’aspettativa di vita che globalmente si attesta intorno ai 73 anni. La malattia è prevalentemente collegata all’età, infatti, la maggior parte delle persone colpite ha più di 65 anni. L’invecchiamento, insomma, gioca un ruolo importante nell’insorgenza della patologia. La ricerca indica che la malattia è strettamente associata alla formazione di placche senili nel cervello, formate da ammassi di proteine e detriti neuronali. I circuiti cerebrali che governano l’induzione e la progressione della neuro-degenerazione e della compromissione della memoria non sono del tutto compresi nonostante i molteplici studi che impegnano numerosi istituti di ricerca. Un interrogativo riguarda il grado di vulnerabilità delle varie parti del cervello coinvolte dalla malattia. Uno studio del Massachusetts Institute of Technology (USA), pubblicato sulla rivista scientifica Science Translational Medicine, ha individuato un gruppo di neuroni più ricettivi ai processi degenerativi che conducono alla perdita di memoria. Questo insieme di cellule nervose forma i corpi mammillari (due rilievi a somiglianza delle mammelle) ed è implicato nella dinamica emotivo-istintiva e della memoria. E’ stata riscontrata un’attività molto intensa di alcune aree dei corpi mammillari rispetto ai campioni di laboratorio non affetti da Alzheimer e maggiori danni ai neuroni (le unità funzionali del sistema nervoso) confrontati con altre zone. La somministrazione di farmaci antiepilettici, che riducono l’iperattività neuronale, ha portato a un notevole miglioramento della capacità mnemonica degli esemplari interessati. Occorre approfondire le ricerche per chiarire la valenza delle alterazioni mammillari nei processi degenerativi iniziali e i collegamenti successivi con altre parti del cervello. Si potrebbe intervenire sui primi sintomi della malattia e contenerne la progressione. Ad oggi rimane la prevenzione: dieta equilibrata, attività fisica, sonno, relazioni sociali e interessi sono gli elementi che contribuiscono a mantenere in buona salute le nostre cellule cerebrali. Articolo pubblicato sul quotidiano LaRagione del 12 Maggio 2023 By Primo Mastrantoni, Aduc http://www.aduc.it
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Alzheimer, una malattia invalidante. Studi e nuove terapie mirate
Posted by fidest press agency su lunedì, 15 Maggio 2023
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Alzheimer, una malattia invalidante. Studi e nuove terapie mirate
Posted by fidest press agency su domenica, 14 Maggio 2023
Colpisce la memoria e le funzioni cognitive, si ripercuote sulla capacità di parlare e di pensare, può causare altri problemi fra cui stati di confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale. È l’Alzheimer. La malattia fu descritta dal medico tedesco Alois Alzheimer agli inizi del secolo scorso e, oggi, è un problema che coinvolge un numero crescente di individui, considerato che è aumentata l’aspettativa di vita che globalmente si attesta intorno ai 73 anni. La malattia è prevalentemente collegata all’età, infatti, la maggior parte delle persone colpite ha più di 65 anni. L’invecchiamento, insomma, gioca un ruolo importante nell’insorgenza della patologia. La ricerca indica che la malattia è strettamente associata alla formazione di placche senili nel cervello, formate da ammassi di proteine e detriti neuronali. I circuiti cerebrali che governano l’induzione e la progressione della neuro-degenerazione e della compromissione della memoria non sono del tutto compresi nonostante i molteplici studi che impegnano numerosi istituti di ricerca. Un interrogativo riguarda il grado di vulnerabilità delle varie parti del cervello coinvolte dalla malattia. Uno studio del Massachusetts Institute of Technology (USA), pubblicato sulla rivista scientifica Science Translational Medicine, ha individuato un gruppo di neuroni più ricettivi ai processi degenerativi che conducono alla perdita di memoria. Questo insieme di cellule nervose forma i corpi mammillari (due rilievi a somiglianza delle mammelle) ed è implicato nella dinamica emotivo-istintiva e della memoria. E’ stata riscontrata un’attività molto intensa di alcune aree dei corpi mammillari rispetto ai campioni di laboratorio non affetti da Alzheimer e maggiori danni ai neuroni (le unità funzionali del sistema nervoso) confrontati con altre zone. La somministrazione di farmaci antiepilettici, che riducono l’iperattività neuronale, ha portato a un notevole miglioramento della capacità mnemonica degli esemplari interessati. Occorre approfondire le ricerche per chiarire la valenza delle alterazioni mammillari nei processi degenerativi iniziali e i collegamenti successivi con altre parti del cervello. Si potrebbe intervenire sui primi sintomi della malattia e contenerne la progressione. Ad oggi rimane la prevenzione: dieta equilibrata, attività fisica, sonno, relazioni sociali e interessi sono gli elementi che contribuiscono a mantenere in buona salute le nostre cellule cerebrali. Articolo pubblicato sul quotidiano LaRagione del 12 Maggio 2023 By Primo Mastrantoni, Aduc http://www.aduc.it
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La malattia coronarica ostruttiva aumenta il rischio di infarto miocardico anche se asintomatica
Posted by fidest press agency su domenica, 9 aprile 2023
Da uno studio di coorte pubblicato su Annals of Internal Medicine emerge che nei soggetti di mezza età asintomatici e senza malattie cardiovascolari note, la presenza di aterosclerosi coronarica subclinica ostruttiva si associa a un aumento di oltre 8 volte del rischio di infarto del miocardio.«L’aterosclerosi coronarica può provocare un infarto miocardico nell’ambito di una cardiopatia ischemica» ricorda il primo firmatario dell’articolo Andreas Fuchs, del Dipartimento di Cardiologia al Copenhagen University Hospital-Rigshospitalet, in Danimarca, precisando che un’aterosclerosi coronarica subclinica può essere presente in età precoce molti anni prima che si sviluppino i sintomi ischemici. «Per oltre mezzo secolo la malattia coronarica ostruttiva, definita come stenosi coronarica del 50% o superiore, è stata considerata una caratteristica chiave del rischio elevato, sebbene negli ultimi decenni l’estensione dell’aterosclerosi nell’albero coronarico e le caratteristiche morfologiche della placca siano state riconosciute come fattori di rischio di importanza significativa» scrivono i ricercatori, che per studiare l’associazione tra aterosclerosi coronarica subclinica e rischio di infarto miocardico hanno valutato 9.533 persone asintomatiche di età pari o superiore a 40 anni senza malattie cardiovascolari utilizzando l’angiografia con tomografia computerizzata (CTA) per diagnosticare l’aterosclerosi coronarica ostruttiva. Così facendo hanno scoperto che il 54% dei partecipanti non aveva coronarie aterosclerotiche, mentre tra il 46% delle persone con questa condizione il 36% aveva una malattia non ostruttiva e il 10% una malattia ostruttiva, con un significativo aumento del rischio di infarto del miocardio. E un editoriale di accompagnamento firmato da Michael McDermott e da David Newby del BHF Center for Cardiovascular Science all’Università di Edimburgo, si sottolinea che questi risultati offrono l’opportunità di analizzare la storia naturale della malattia coronarica in assenza di angioplastica disostruttiva. «Lo studio fornisce anche dati inestimabili sulla prevalenza della malattia coronarica asintomatica, estremamente utili nelle strategie di prevenzione della salute pubblica e nella messa a punto di terapie preventive nelle persone sottoposte a screening per malattia coronarica occulta» concludono gli editorialisti. (fonte doctor33)
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Giornata Mondiale della Malattia di Parkinson
Posted by fidest press agency su sabato, 8 aprile 2023
Martedì 11 aprile, la Società Italiana di Neurologia diffonde i risultati di uno studio USA appena pubblicato su JAMA secondo i quali l’esposizione agli ambienti naturali come foreste, parchi, alberi stradali e fiumi, può ridurre il rischio di ospedalizzazione per malattia di Parkinson.Tra gennaio 2000 e dicembre 2016 sono stati analizzati oltre 122mila soggetti con età compresa all’ingresso nello studio fra 65 e 74 anni coperti dal sistema di assistenza sanitaria americano MEDICARE (87,6%), metà dei quali con diagnosi di Parkinson.I dati di ricovero sono stati confrontati con gli indici di vegetazione viva e di acqua (indice NDVI) dell’area di residenza dei pazienti che un apposito algoritmo (R Project for Statistical Computing) ha adeguato in relazione alle diverse stagioni dell’anno.L’indice NDVI (Normalized Difference Vegetation Index che valuta la percentuale di parco e spazio blu in relazione alla densità di popolazione ≥1000 persone/miglio quadrato) ha mostrato una riduzione di ricoveri ospedalieri per i pazienti con malattia di Parkinson, indicando che alcuni ambienti naturali sono associati a un calo del rischio di ospedalizzazione per tale malattia.“Finora esistevano dati contrastanti sull’efficacia dell’esposizione ai cosiddetti spazi verdi nel proteggere da diverse condizioni neurologiche – commenta il Prof. Alfredo Berardelli, Presidente della Società Italiana di Neurologia – mentre da numerosi recenti studi è emerso che questi ambienti esercitano una vera e propria azione terapeutica. Una ragione in più per sensibilizzare i responsabili politici a prendere in seria considerazione interventi di protezione degli habitat naturali”. La Malattia di Parkinson è una malattia neurologica che colpisce oggi 5 milioni di persone nel mondo, di cui circa 400.000 solo in Italia, e che si manifesta in media intorno ai 60 anni di età. Si stima che questo numero sia destinato ad aumentare nel nostro Paese e che nei prossimi 15 anni saranno 6.000 i nuovi casi ogni anno, di cui la metà colpiti in età lavorativa.La diagnosi della malattia è essenzialmente clinica e si basa sui sintomi presentati dal paziente. Gli esami strumentali come la risonanza magnetica dell’encefalo possono contribuire a escludere quelle malattie che hanno sintomi analoghi al Parkinson. La conferma della diagnosi può arrivare da esami specifici come la SPECT (Tomografia Computerizzata ad Emissione Singola di Fotoni) . Nelle fasi già iniziali di malattia è possibile ora dimostrare la presenza della alfa-sinucleina, proteina che si accumula in modo abnorme in tale malattia, e che può essere dosata nei liquidi biologici e fra questi anche nella saliva.Ad oggi non esiste una cura per la malattia di Parkinson, ma sono disponibili numerose terapie che permettono di tenere i sintomi sotto controllo.
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Soffrire di endometriosi significa avere una malattia autoimmune?
Posted by fidest press agency su lunedì, 20 marzo 2023
Può l’endometriosi essere considerata una malattia autoimmune? Tra le cause ancora poco chiare e conosciute per diagnosticare l’endometriosi, c’è quella legata al sistema immunitario che si ipotizza sia coinvolto nello sviluppo e nella progressione della malattia. È stato riscontrato che le donne con endometriosi hanno livelli più elevati di altre malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide, il LES, la psoriasi e le allergie. Esistono diverse teorie sulle cause dell’endometriosi e questo complica e allunga molto i tempi per la diagnosi. La spiegazione più accettata è la teoria di Sampson (o la teoria delle mestruazioni retrograde), che suggerisce che alcune delle cellule vanno nella direzione opposta durante le mestruazioni. Secondo questa teoria, le cellule non escono attraverso la vagina, ma vanno invece verso le tube e possono raggiungere l’ovaio, l’addome o altri organi. “Per chi soffre di endometriosi, il dolore durante le mestruazioni è il sintomo principale che può protrarsi anche nei giorni successivi e durante i rapporti sessuali. In caso di mestruazioni dolorose e/o abbondanti è sempre bene consultare un ginecologo che con i corretti strumenti come per esempio l’ecografia, potrebbe confermare o escludere la presenza della patologia. L’endometriosi può avere un enorme impatto sulla qualità di vita – conclude FARRIS -per questo è necessario trattare quanto prima farmacologicamente essendo una condizione che deve essere considerata come una malattia cronica. È bene, inoltre, tenere un diario dei sintomi perché può essere difficile distinguere l’endometriosi da altre condizioni mediche. In ogni caso è necessario eseguire una risonanza magnetica prima di considerare un intervento chirurgico, che va riservato esclusivamente a situazioni molto gravi”.
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Malattia renale cronica
Posted by fidest press agency su mercoledì, 18 gennaio 2023
In Italia si stima che circa il 10% della popolazione (circa 6 milioni)1 sia affetta dalla malattia renale cronica, una condizione grave e progressiva che, nonostante l’elevata prevalenza, rimane significativamente sotto-diagnosticata soprattutto nei suoi stadi iniziali, anche in pazienti che presentano fattori di rischio noti come diabete, obesità, ipertensione o problemi cardiovascolari. Troppo spesso, però, la sua natura di patologia silente e la conseguente assenza di sintomi ne ritardano fortemente la diagnosi, fondamentale per evitare il progressivo declino della funzionalità renale e la progressione al suo stadio terminale che può portare i pazienti a dialisi o morte prematura. AIFA ha appena approvato la rimborsabilità di dapagliflozin per il trattamento della malattia renale cronica nei pazienti adulti indipendentemente dalla presenza di diabete di tipo 2 (DT2) e di scompenso cardiaco con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale attesa in questi giorni. L’approvazione posiziona dapagliflozin come il primo trattamento ad avere un’indicazione specifica per la malattia renale cronica e l’unica opzione terapeutica, insieme alla diagnosi precoce, che consente di rallentare la progressione della malattia e l’entrata in dialisi.La malattia renale cronica può essere una condizione grave e progressiva definita dalla diminuzione della funzione renale (diagnosticata attraverso una riduzione del filtrato glomerulare stimato (eGFR) o dall’aumenta presenza di albumina nelle urine, o entrambi, per almeno tre mesi). Le cause più comuni della MRC sono il diabete, l’ipertensione e le glomerulonefriti. La malattia renale cronica è associata a significative comorbidità e a un aumentato rischio di eventi cardiovascolari, come scompenso cardiaco e morte prematura. Nella sua forma più grave, nota come malattia renale allo stadio terminale, il danno renale e il deterioramento della sua funzione rendono necessari la dialisi o il trapianto di reni. La maggior parte dei pazienti affetti da MRC muore per cause CV prima di raggiungere la forma di ESKD
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La vitiligine è una malattia autoimmune
Posted by fidest press agency su domenica, 18 dicembre 2022
Colpisce la pelle, provocando l’insorgere di macchie più chiare rispetto al resto dell’incarnato. Per quanto l’incidenza sia bassa- appena l’1,6% della popolazione europea, lo 0,5-2% di quella globale- la visibilità della patologia rende difficile la vita di chi ne è affetto, portando anche a episodi depressivi gravi o moderati. È questo lo scenario emerso dal convegno “Sveliamo il vero volto della vitiligine” che stamattina si è tenuto a Milano. Patrocinato da Incyte Italia, l’evento non ha illustrato solo una malattia di cui si parla poco, ma anche nuovi percorsi terapeutici che puntano a migliorare la qualità della vita dei pazienti, costretti ad affrontare ingenti costi per contrastare la patologia. Le cifre sono importanti, come evidenziato da uno studio diretto dal dottor Francesco Saverio Mennini dell’università di Roma Tor Vergata. “Il costo medio per pazienti è pari a 1.653 euro e il ricovero ospedaliero rappresenta il 50% della spesa” – spiega Mennini- “ma a incidere è anche la presenza di altre patologie. Se in loro assenza l’onere medio si assesta sui 1.389 euro, in caso di comorbidità si arriva fino a 5.058 Euro”. La malattia può manifestarsi in qualsiasi momento, anche se l’incidenza più alta si registra nella fascia tra i 20 e i 40 anni. A causare la vitiligine è un processo in cui il sistema immunitario attacca i melanociti, cellule della pelle che secernono la melanina, sostanza che dona alla cute il suo colorito. La morte cellulare fa sì che il paziente manifesti in varie zone del corpo macchie biancastre che spesso provocano forti disagi a chi ne è affetto. Tre persone su 5 lamentano problemi di autostima, mentre addirittura 9 su 10 lottano contro lo stigma della malattia. I fattori che determinano la risposta alla terapia sono molti e comprendono la localizzazione delle lesioni, l’età del paziente e la durata della patologia. “Circa il 40-50% di chi intraprende la fototerapia può sperimentare nuova depigmentazione anche in aree trattate con successo”, puntualizza Picardo, “ma i dati su chi è in cura con l’inibitore delle Janus chinasi da due anni ci mostrano come la condizione clinica migliori con il passare del tempo”. Non una cura definitiva, ma una nuova speranza.
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Malattia aortica: nuova linea guida
Posted by fidest press agency su martedì, 29 novembre 2022
L’American College of Cardiology (ACC) e l’American Heart Association (AHA) hanno firmato una nuova linea guida sulla diagnosi e la gestione della malattia aortica, pubblicata simultaneamente sul Journal of the American College of Cardiology e su Circulation. Il documento, redatto in collaborazione con l’American Association for Thoracic Surgery, l’American College of Radiology, la Society of Cardiovascular Anesthesiologists, la Society for Cardiovascular Angiography and Interventions, la Society of Thoracic Surgeons e la Society for Vascular Medicine, è stato approvato anche dalla Society of Interventional Radiology and Society for Vascular Surgery.«La nuova linea guida, che riunisce e aggiorna le precedenti versioni per l’aorta toracica e addominale, è rivolta ai chirurghi cardiovascolari coinvolti nella cura dei pazienti con malattia aortica, ma anche ai medici che assistono malati cardiovascolari e ai medici di medicina d’urgenza» esordisce Eric Isselbacher, co-direttore del Thoracic Aortic Center al Mass General di Boston e presidente del comitato di redazione, spiegando che nell’ultimo decennio si è resa disponibile una serie di studi nel campo delle malattie aortiche.«Alla luce dei nuovi dati era il momento di aggiornare i documenti precedenti supportando l’attuale pratica clinica con raccomandazioni aggiornate mirate a fornire la migliore assistenza possibile a questa popolazione di pazienti» riprende Isselbacher, elencando alcuni dei punti salienti del documento: screening familiare mirato a identificare gli individui più a rischio di malattia aortica; adeguamento delle dimensioni della lesione aortica suscettibile di intervento alla superficie corporea o all’altezza del paziente; dato che il rischio di aneurisma o dissezione aortica aumenta con le dimensioni della lesione, la soglia di intervento è stata abbassata, consentendo a individui selezionati di sottoporsi tempestivamente a una chirurgia salvavita; adozione di un processo decisionale condiviso che coinvolga il paziente; costituzione di team aortici multidisciplinari formati da cardiochirurghi e chirurghi vascolari, specialisti di imaging in grado di interpretare TC, risonanza magnetica ed ecocardiografia, anestesisti esperti e terapie intensive con esperienza nei casi acuti. (fonte Doctor33)
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Anemia la malattia silenziosa che colpisce i giovani
Posted by fidest press agency su venerdì, 11 novembre 2022
L’anemia aplastica (AA) è una malattia rara che colpisce principalmente adolescenti e giovani adulti (20-25 anni) in egual misura uomini e donne. L’80% delle forme di anemia aplastica sono di tipo acquisito da cause ignote e solo il 20% riguarda forme congenite, si manifesta con sintomi comuni come stanchezza, difficoltà di concentrazione ed attenzione, riduzione dell’appetito e calo di peso, pallore, febbre, comparsa inspiegabile di lividi, gengive sanguinanti tutti sintomi che possono essere interpretati diversamente.Solitamente non é possible alcun tipo di prevenzione per la forma acquisita che nel 70-80% dei casi viene definita idiopatica non essendo note le cause che la scatenano. Si caratterizza dalla incapacità del midollo osseo di produrre un numero sufficiente di cellule del sangue comportando una riduzione di globuli rossi, globuli bianchi e piastrine.I principali trattamenti di cura in base alla gravità si distinguono in trasfusioni di sangue (globuli rossi e piastrine), farmaci immunosoppressori, antibiotici e antivirali ma in prima linea rimane il trapianto di cellule staminali cordonali o da midollo osseo.In caso di trapianto da midollo osseo, oltre a trattarsi di una procedura invasiva e dolorosa, ad oggi la vera difficoltà riguarda la compatibilità con il donatore riducendo così il numero di trapianti. Numerose evidenze cliniche hanno indicato che la distruzione immuno-mediata dei linfociti T delle cellule staminali ematopoietiche (HSC) è coinvolta nella patogenesi dell’anemia aplastica. Studi recenti hanno dimostrato che le cellule staminali mesenchimali MSC, una tipologia di cellule staminali contenute nel cordone ombelicale, sono in grado di modulare l’attività delle cellule immunitarie come le cellule T e di tutte le cellule del sangue ripristinando il normale microcircolo sanguigno.Grazie alla conservazione delle cellule staminali contenute nel sangue cordonale permette di avere un campione proprio e compatibile immediatamente disponibile. La conservazione di cellule staminali cordonali consiste nella raccolta alla nascita, attraverso un processo indolore di cellule staminali mesenchimali che grazie alla loro abbondanza e grande capacità di espansione si sono rivelate il trattamento migliore in caso di AA.
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Campagna di sensibilizzazione sulla malattia psoriasica
Posted by fidest press agency su domenica, 23 ottobre 2022
Milano. Presentata a Milano la campagna di sensibilizzazione “Oltre le Apparenze”, promossa da Janssen Immunology in collaborazione con Associazione Malati Reumatici Emilia-Romagna (AMRER), Associazione Nazionale “Gli Amici per la Pelle” (ANAP), Associazione Nazionale Malati Reumatici (ANMAR), Associazione Psoriasici Italiani Amici della Fondazione Corazza (APIAFCO) e Associazione nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare (APMARR) e dedicata alla malattia psoriasica.La campagna si pone come obiettivo quello di sensibilizzare il largo pubblico, con un’attenzione particolare a medici e pazienti, sulla malattia psoriasica e le sue possibili manifestazioni, favorendone così una diagnosi precoce che è fondamentale per intervenire con le giuste terapie e garantire dunque una migliore qualità di vita per i pazienti che ne sono affetti. Ma non solo, intende infatti dar luce sulle numerose associazioni pazienti esistenti, che da anni supportano coloro che soffrono di queste patologie croniche.Punto chiave della campagna è il superamento delle apparenze. Questo concetto è stato rappresentato visivamente da Massimo Valenti, che ha realizzato una serie di illustrazioni ad hoc in cui la comunicazione fa leva sul mostrare come ci sia più di quello che appare, riprendendo dunque il nome stesso della campagna. Le illustrazioni fanno parte di una mostra virtuale che sarà allestita sul sito web Psoriasi360.it, che raccoglie anche la voce dell’illustratore e le testimonianze di medici e pazienti, alla quale si potrà accedere anche tramite QR code disponibile su volantini e roll-up disposti in alcuni ospedali aderenti all’iniziativa delle regioni Lombardia, Campania ed Emilia-Romagna. Per la tappa lombarda presentata oggi gli ospedali sono: Spedali Civili – Brescia, IRCCS Ospedale San Raffaele – Milano, IRCCS Humanitas Research Hospital – Rozzano, Ospedale San Gerardo – Monza, Ospedale Luigi Sacco – Milano, Presidio Ospedaliero “Alessandro Manzoni” – Lecco. Sono circa 20 milioni – 2 milioni e mezzo in Italia1 – le persone che in Europa convivono con malattie croniche immuno-mediate come la psoriasi e l’artrite psoriasica. Si tratta di malattie che impattano pesantemente sulla vita dei pazienti: dolore, stanchezza, incapacità di svolgere le attività quotidiane, ma anche ripercussioni psicologiche come ansia, stress e depressione. La psoriasi è una malattia cronica recidivante della cute che colpisce circa 2 milioni di persone in Italia2. È caratterizzata da evidenti lesioni cutanee che possono presentarsi in aree limitate o estese del corpo. «Non esiste una causa univoca della malattia. Alcuni eventi possono però contribuire a scatenarla in persone già predisposte, come traumi, infezioni, stress e farmaci», spiega Antonio Costanzo, Direttore del reparto di Dermatologia all’Istituto Humanitas di Milano e Segretario Generale e Vicepresidente dello European Dermatology Forum (EDF). Una delle principali manifestazioni della malattia psoriasica è l’artrite psoriasica, una malattia infiammatoria cronica che provoca dolore, rigidità e gonfiore delle articolazioni. Fino al 30 per cento dei pazienti con psoriasi può svilupparla nel tempo.
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Anche il Covid può essere una malattia professionale coperta dall’Inail
Posted by fidest press agency su sabato, 15 ottobre 2022
Pure quando non viene dimostrato l’evento infettante. La vicenda riguarda un infermiere in servizio presso una Rsa. Dopo qualche anno di assistenza ad anziani malati e con problemi di epatite, l’uomo aveva contratto la malattia. Ma mai si era ricordato di essersi punto con una siringa o di essere venuto direttamente a contatto con sangue infetto. Lui aveva subito presentato domanda per incassare la copertura Inail ma senza successo. Quindi aveva impugnato il diniego di fronte al Tribunale che aveva ancora una volta negato il suo diritto. Stessa sorte in Corte d’Appello. Il lavoratore è dovuto arrivare in Cassazione per ottenere il primo verdetto favorevole pubblicato il 10 ottobre 2022 nel quale si afferma espressamente che, anche in questi casi, la copertura Inail dev’essere garantita. Per gli Ermellini, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, il motivo è fondato e, al riguardo, hanno ricordato che accogliendo il ricorso di un infermiere che sosteneva di aver contratto l’epatite in una Rsa mentre cambiava anziani ammalati, senza provare, però, di essersi punto e sporcato con il sangue infetto hanno scritto nell’ordinanza: “nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomo – fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell’infezione» con l’aggiunta che «la relativa dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici”. Nel caso sottoposto all’esame della Corte sbagliano i giudici territoriali che, con una motivazione non sempre coerente e lineare, in cui è menzionata la necessità di una «certa individuazione del fatto origine della malattia», a collocare il punto di caduta ultimo del proprio ragionamento nella conclusione per cui si sarebbe infine dovuta dare, anche alla luce della pregressa Epatite B, «la prova rigorosa dell’evento infettante in occasione di lavoro». Precursore di questa importante ordinanza era stata una circolare dell’Inail, la 22 del 2020 con la quale l’istituto aveva chiarito che è infortunio sul lavoro l’infezione da Sars-Cov-2 contratta per motivi di servizio. E per dimostrare l’origine professionale della malattia basta la presunzione semplice, fino a prova contraria dell’Inail.
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Obesità e malattia renale cronica
Posted by fidest press agency su lunedì, 10 ottobre 2022
L’alta incidenza di obesità fra i pazienti con MRC è dovuta al fatto che molti diabetici obesi e/o ipertesi sviluppano una nefropatia. Il diabete è infatti una delle prime cause di MRC, non solo come effetto (MRC diabetica) ma anche perché il paziente diabetico è a maggior rischio di sviluppare patologie cardiovascolari ed infettive che concorrono all’aumentata morbilità renale. “Fino al 30-40 % dei pazienti diabetici sviluppa malattia renale cronica, con alcune realtà etniche, come quella afroamericana e ispanica negli US, nelle quali questa tendenza è particolarmente elevata, anche perché spesso associata ad obesità, facendo sì che la prevalenza globale della malattia renale cronica possa raggiungere o superare il 50% – continua Messa, Presidente SIN.I dati europei sono al momento moderatamente migliori, con una minore incidenza di MRC nei pazienti diabetici (circa 30-40%) e minore prevalenza di obesità. Questi dati epidemiologici suggeriscono che l’obesità sia un fattore addizionale di rischio per lo sviluppo di MRC. Non è poi da dimenticare che esistono condizioni genetiche, solo in parte definite, che concorrono a predisporre allo sviluppo di nefropatie”. Nel corso del Congresso ha avuto ampio spazio il confronto sui nuovi biomarcatori della Diabetic Kidney Disease (malattia renale diabetica); allo studio ci sono diversi biomarker diagnostici e prognostici, predittivi del tipo di evoluzione della MRC, che potranno aggiungersi ai marcatori usati ormai di routine, apportando maggiore specificità e predittività degli eventi renali. Più precisa è la diagnosi, più affidabile la previsione prognostica. La correlazione obesità – malattia renale cronica è dovuta, ancora, all’effetto di alcuni farmaci che vengono usati nella terapia, come i cortisonici, e alla riduzione di attività fisica dovuta all’aumento di peso, nonché all’emergere di fattori clinici e metabolici che possono sopraggiungere e influire negativamente. L’obesità ha un impatto negativo anche sulla salute dei pazienti che hanno avuto un trapianto di rene. Fra essi, infatti, la percentuale di obesi è piuttosto alta a causa della somministrazione della terapia steroidea, e del recupero dell’appetito, accompagnato dalla volontà di partecipare a occasioni sociali e conviviali, dopo la fase di malattia prolungata. Ma l’obesità incide fortemente sulla sopravvivenza dell’organo trapiantato, mettendo sotto stress l’unico rene, già sotto attacco immunologico continuo. La risposta alle malattie renali non può prescindere, dunque, da una sana alimentazione e da stili di vita corretti.
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Malattia di Alzheimer e gestione del paziente
Posted by fidest press agency su giovedì, 29 settembre 2022
Le demenze rappresentano una delle maggiori sfide per i sistemi sanitari sui quali l’onere crescente delle malattie cronico-degenerative è uno dei fattori-chiave su cui si misurerà la capacità delle istituzioni pubbliche di garantire il sempre più delicato equilibrio tra efficienza e sostenibilità. A tale proposito, un panel multidisciplinare, composto da esperti di diversa specializzazione e coordinato dal Prof. Luca Pani, si è confrontato sui percorsi di gestione della persona affetta da malattia di Alzheimer (AD) analizzandone i punti di forza e i principali gap, e proponendo eventuali soluzioni, al fine di ottimizzare l’intero percorso del paziente con deficit cognitivo. Il confronto ha condotto alla stesura di un documento, “La gestione del paziente con malattia di Alzheimer: dal sospetto alla diagnosi precoce fino all’assistenza integrata. Analisi dello scenario italiano e linee di indirizzo per ottimizzare il percorso di malattia”, edito da Edra con il contributo non condizionante di Roche. Questo documento definisce il patient journey ottimale e si rivolge a tutte le figure coinvolte nel percorso di malattia sin dal primo sospetto, cioè neurologi, psichiatri, geriatri, radiologi, biomarker expert, psicologi, assistenti sociali, fisioterapisti, infermieri, medici di medicina generale (MMG), farmacisti, associazioni di pazienti, istituzioni sanitarie. Nell’ambito dei molteplici argomenti affrontati, sono identificabili alcuni macrotemi di particolare rilievo ai fini del miglioramento dell’assistenza a questa popolazione di pazienti da parte del Servizio Sanitario Nazionale. Tra questi riveste un’importanza specifica “La presa in carico delle persone con demenza: la terapia e il follow-up, l’assistenza sociosanitaria e l’importanza di team multidisciplinari”. A tale proposito, due sono le sfide da affrontare nel giudizio condiviso degli esperti: 1) migliorare la comunicazione tra Centri per i Disturbi Cognitivi e Demenze (CDCD), paziente e famiglia per informare dell’esistenza di referenti delle associazioni pazienti; 2) favorire i collegamenti tra MMG e servizi socio-sanitari per minimizzare la frammentazione del percorso terapeutico-assistenziale. Queste le proposte operative sviluppate dal panel per soddisfare tali necessità: 1) coinvolgere il MMG per ottimizzare la gestione domiciliare del decorso post-operatorio in caso di ospedalizzazioni; 2) coinvolgere il farmacista di comunità nella presa in carico del paziente con AD in virtù del suo ruolo nella gestione domiciliare del paziente affetto da cronicità; 3) promuovere una maggiore interazione tra MMG e CDCD; 4) promuovere la formazione del personale sanitario operante nei reparti ospedalieri per stimolare una presa in carico ‘dementia-friendly’ e limitare le frequenti complicazioni post-degenza quali ansia e depressione alle dimissioni e ulteriore compromissione dell’autonomia funzionale del paziente. (fonte Doctor33)
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È emergenza malattie croniche del fegato
Posted by fidest press agency su martedì, 27 settembre 2022
“Le malattie croniche del fegato causano ogni anno 2 milioni di decessi nel mondo, 1 milione per la cirrosi e 1 per le epatiti acute e l’epatocarcinoma”, illustra Paolo Angeli, Direttore Clinica Medica V – Università di Padova.La cirrosi, in particolare, rappresenta la 13° causa di morte nel mondo e la 7° in Europa. “Negli ultimi anni abbiamo ridotto il tasso di mortalità per cirrosi soprattutto nei Paesi industrializzati. Abbiamo fatto molto bene anche in Regione Veneto con i tassi passati da oltre 35 ogni 100mila abitanti a 16 nei maschi e a 9 nelle donne. Una riduzione per tutte le eziologie, salvo una: la steatosi non alcolica. Si prevede che nel prossimo futuro ci sarà una pandemia di steatosi epatica non alcolica e di steatoepatite”, aggiunge Angeli che sottolinea la complessità della gestione della cirrosi, specie quando è scompensata. “Per pazienti che hanno una cirrosi scompensata c’è una drastica riduzione della sopravvivenza e un grande numero di ospedalizzazioni, basti pensare che per un paziente ricoverato la probabilità di esserlo nuovamente entro 30 giorni è vicina al 40% ed entro l’anno sfiora il 75%”.Per questi pazienti, sottolinea lo specialista, è urgente un modello di assistenza multidisciplinare affiancato da reti territoriali. Rete che la Regione Veneto ha istituito proprio quest’anno. “Disporre di una rete regionale significa garantire a tutti i cittadini tempestività, continuità e soprattutto l’equità di accesso alle cure”, aggiunge.
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Nephris celebra la scoperta di un nuovo fattore patogeno nella malattia renale diabetica
Posted by fidest press agency su giovedì, 18 agosto 2022
Nephris, azienda biotecnologica che sviluppa terapie all’avanguardia per le patologie renali croniche, si congratula con i ricercatori del Centro di Ricerca Pediatrica Romeo ed Enrica Invernizzi dell’Università degli Studi di Milano che hanno partecipato, insieme alla Harvard Medical School, a uno studio pubblicato oggi in Science Translational Medicine. Lo studio riporta i risultati della ricerca su NBL1, un fattore patogeno nella malattia renale diabetica, scoperto dai fondatori scientifici di Nephris, il dott. Paolo Fiorina e la dott.ssa Francesca D’Addio, ricercatori presso il Centro di Ricerca Invernizzi. Nephris è un’azienda biotecnologica che sviluppa terapie innovative per le malattie renali croniche. Con sede a Milano l’azienda è stata fondata dal Prof. Paolo Fiorina, ordinario di endocrinologia presso l’Università degli Studi di Milano, un’autorità di fama mondiale nel settore, e dalla Prof.ssa Francesca D’Addio. L’azienda ha raccolto 3 milioni di euro di finanziamento seed attraverso il Fondo Sofinnova Telethon, fondo early stage di Sofinnova Partners. Per ulteriori informazioni visitare il sito http://www.nephris.com
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Nephris celebra la scoperta di un nuovo fattore patogeno nella malattia renale diabetica
Posted by fidest press agency su mercoledì, 17 agosto 2022
Milano. Nephris, azienda biotecnologica che sviluppa terapie all’avanguardia per le patologie renali croniche, si congratula con i ricercatori del Centro di Ricerca Pediatrica Romeo ed Enrica Invernizzi dell’Università degli Studi di Milano che hanno partecipato, insieme alla Harvard Medical School, a uno studio pubblicato oggi in Science Translational Medicine. Lo studio riporta i risultati della ricerca su NBL1, un fattore patogeno nella malattia renale diabetica, scoperto dai fondatori scientifici di Nephris, il dott. Paolo Fiorina e la dott.ssa Francesca D’Addio, ricercatori presso il Centro di Ricerca Invernizzi. Alla ricerca hanno partecipato anche ricercatori del Boston Children’s Hospital e del Joslin Diabetes Center di Boston. Nello studio viene spiegato come alti livelli circolanti di NBL1 rappresentano un fattore di predizione indipendente della perdita di funzione renale sia nei pazienti con diabete di tipo 1 che di tipo 2. I ricercatori hanno utilizzato metodiche come il sequenziamento dell’RNA a singola cellula e l’immunoistochimica per studiare l’espressione di NBL1 nelle cellule renali e in vari altri tessuti e per dimostrare, per la prima volta, l’importante ruolo di questa proteina come fattore patogeno nella malattia renale diabetica. Il Prof. Paolo Fiorina, ordinario di endocrinologia presso l’Università degli Studi di Milano e Direttore del Centro Internazionale di Ricerca per il T1D presso il Centro di Ricerca Clinica Pediatrica Romeo ed Enrica Invernizzi, ha spiegato che la scoperta “certamente permetterà di migliorare la nostra comprensione dei meccanismi alla base dello sviluppo della nefropatia diabetica”, una delle complicanze più comuni del diabete. “Per la prima volta abbiamo identificato un fattore tossico diretto contro i podociti renali”, ha aggiunto il Prof. Fiorina, “dimostrando che esistono fattori specifici oltre all’iperglicemia che possono rappresentare un potenziale bersaglio per future terapie”.
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Ictus Silvestrini: “Pensare di curare la malattia solamente riaprendo un vaso può essere pericoloso”
Posted by fidest press agency su lunedì, 27 giugno 2022
“Diciamo no alla moltiplicazione delle Stroke Unit con piccoli volumi di attività, perché non sarebbero nell’interesse del paziente. Quanto alla trombectomia, pensare di curare la malattia solamente riaprendo un vaso, può essere pericoloso: il cervello è anatomicamente e funzionalmente più complesso del cuore. Ogni giorno lavoriamo in collaborazione con i cardiologi e con i cardiologi interventisti, ma il rispetto per le competenze può cambiare radicalmente il corso di una patologia e la vita delle persone”. Questa la reazione del Presidente di ISA-AII Italian Stroke Association-Associazione Italiana Ictus, Prof. Mauro Silvestrini all’allarme lanciato dal GISE sulla carenza di carenza in Italia di Unità Ictus e di una delle procedure utilizzate per disostruire i vasi occlusi, la trombectomia.“Il paziente colpito da ictus – prosegue Silvestrini – normalmente viene prima sottoposto a terapia farmacologica fibrinolitica per via endovenosa. In casi selezionati e in specifiche condizioni si procede con la trombectomia. Ricordiamo però che la procedura da sola non risolve: il trattamento offerto al paziente è efficace se c’è un percorso adeguato in cui l’intervento può avere un ruolo limitato, non per importanza, ma perché inserito nell’ambito di un percorso che è molto più articolato e che non è per tutti. Le evidenze ci dicono che ciò che migliora la prognosi del paziente non è un singolo passaggio ma una gestione appropriata e competente dell’insieme di problematiche che caratterizzano un ictus. Estrarre quel solo elemento da tutto il processo non migliora la speranza di vita di una persona”.“Noi – spiega il Presidente ISA-AII – abbiamo a che fare con il trattamento di una condizione che riguarda il cervello, che è un organo che chiaramente ha le sue peculiarità. Quindi è impensabile che qualsiasi tipo di gestione dei pazienti venga fatta al di là e al di fuori di una supervisione o competenza di tipo neurologico. Se è vero che alcuni pazienti non riescono ad avere un trattamento appropriato, ciò accade soprattutto quando il trasporto in Ospedale non avviene tempestivamente. Questo è minimamente influenzato dal numero delle Unità Ictus che sono attualmente 220 (64 delle quali in grado di effettuare la trombectomia) e che nella maggior parte delle regioni italiane, assicurano già una buona copertura, in netta crescita anche al Sud: prova ne è il numero sempre crescente di pazienti che viene sottoposto a un trattamento nella fase acuta. Bisogna sempre ricordare che l’adeguatezza di un centro e la capacità di effettuare trattamenti efficaci è relazionabile al numero di interventi che vengono eseguiti. Creare strutture che hanno ridotti volumi di attività o che solitamente si occupano di altri trattamenti, non vuol dire rendere un buon servizio alla comunità. Ciò che serve è l’ottimizzazione del funzionamento della rete, dalla consapevolezza dei cittadini sui sintomi al trasporto col 118. “Le figure del cardiologo e del cardiologo interventista sono preziose – conclude il Presidente ISA-AII -. In tutte le Unità Ictus esiste una collaborazione strettissima fra neurologo e cardiologo. La relazione, anche come Società Scientifica, è molto forte: la competenza cardiologica nell’ictus è fondamentale, basti pensare al tema della prevenzione secondaria. Tuttavia crediamo con forza che le competenze specifiche debbano restare tali, sempre nell’ambito di un lavoro di squadra. Un neuroradiologo non tratta l’ictus da solo, ma in collaborazione con l’intera Unità Ictus, normalmente gestita da neurologi, gli unici che possono dare indicazione all’intervento di trombectomia insieme al neuroradiologo, proprio perché tutto quello che viene fatto prima e dopo quell’atto richiede una visione della complessità della problematica. Scorporare questo segmento del percorso, senza uno sguardo d’insieme, non va a vantaggio della salute del paziente, che deve sempre essere al centro di tutti gli sforzi terapeutici della fase acuta dell’ictus”.
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Malattia renale cronica
Posted by fidest press agency su sabato, 12 febbraio 2022
E’ un problema di salute che interessa oltre il 7% della popolazione italiana – afferma il prof. Dario Manfellotto, Dipartimento di Medicina Interna dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e Presidente della Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti (FADOI) -. Dalla patologia possono nascere diverse complicanze, tra cui l’anemia che riguarda in totale oltre il 20% dei casi. I dati epidemiologici dimostrano come l’incidenza della malattia stia aumentando soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione. Lo stesso vale per tutte quelle diverse condizioni cliniche che portano ad un rischio di danno renale, come il diabete, la sindrome metabolica, l’ipertensione o la dislipidemia. Per contrastarla diventa così indispensabile la fase della diagnosi che deve essere quanto più è possibile precoce. A tale scopo abbiamo deciso di creare, nell’ambito del progetto Kidney Anemia Network (KAN), una scheda di valutazione per la pratica clinica quotidiana, semplice ma efficace. Attraverso pochi quesiti e la misurazione di parametri prestabiliti e condivisi è possibile favorire la tempestiva individuazione dell’anemia che contraddistingue la malattia renale, complicandone l’evoluzione. La complessità del malato nefropatico deve essere vista in un’ottica di approccio clinico globale nel quale il «riferimento» ad un altro specialista avviene in modo collaborativo e non sostitutivo o alternativo, esaltando le rispettive competenze, perché in una medicina moderna il rapporto non può essere separato, e ciò che serve in ospedale e sul territorio è la collaborazione fra i vari specialisti e il medico di medicina generale. Infine, è molto importante anche il ruolo della formazione che deve avvenire su criteri condivisi della patologia e coinvolgere anche i medici di famiglia”. “Si tratta di una patologia asintomatica, che si manifesta con sintomi importanti solo quando la riduzione della funzione renale è estremamente avanzata, quando si ha già la comparsa di complicanze, prima fra tutte la presenza di anemia. C’è ancora tanta patologia renale non diagnosticata, ed il nostro servizio sanitario deve ancora compiere importanti passi in avanti in modo tale da avviare il paziente ad un trattamento tempestivo – sostiene Stefano Bianchi, Direttore UOC Nefrologia e Dialisi, Area Livornese Sud, Azienda Sanitaria Toscana Nordovest -. Un altro dei motivi per cui la malattia renale cronica viene diagnosticata “troppo” tardi, è il tardivo riferimento del paziente con malattia renale al nefrologo da parte dei distretti sanitari territoriali e da altri specialisti.
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Cassazione: ok all’investigatore per accertare se la malattia del dipendente è vera
Posted by fidest press agency su mercoledì, 3 novembre 2021
Con la sentenza 30547/21, pubblicata il 28 ottobre dalla sezione lavoro, la Cassazione nel respingere il ricorso di un dipendente licenziato, ribadisce il diritto del datore di lavoro di far seguire il dipendente da un investigatore privato per verificare se la malattia esiste davvero o se, in ogni caso, le sue condizioni non sono effettivamente compatibili con l’ambiente di lavoro. L’investigatore privato inchioda il malato immaginario al licenziamento per giusta causa. È vero: soltanto il medico fiscale può accertare se sussiste o no la patologia lamentata dal lavoratore, mentre il datore non può svolgere in proprio verifiche sullo stato di salute del dipendente ma deve passare per i servizi ispettivi degli enti previdenziali. Attenzione, però: il divieto posto dall’articolo 5 dello statuto dei lavoratori non impedisce all’azienda di appurare con altri mezzi che non sussiste l’incapacità a rendere la prestazione cui è tenuto l’addetto. È quanto emerge dalla. Il ricorso della società è accolto contro le conclusioni del sostituto procuratore generale, dopo che la Corte d’appello ha annullato il licenziamento disciplinare inflitto al lavoratore disponendo la reintegra nel posto e il risarcimento del danno pari a sei mensilità. All’operaio si addebita di non aver pulito la macchina cui è addetto, col rischio di inceppamenti, e di aver prodotto scarti troppo ingenti fra i quali un’intera bobina di carta senza annotarlo sul foglio di produzione. E soprattutto di essersi messo per vendetta in malattia per sette giorni, intuendo di andare incontro a un procedimento disciplinare. Secondo il datore, insomma, le condizioni fisiche consentirebbero all’operaio di rendere regolarmente una prestazione, tanto che gli sguinzaglia alle calcagna l’investigatore privato.Sbaglia la Corte d’appello a ritenere inutilizzabili i rapporti del detective rispetto alla compatibilità della patologia certificata con le attività svolte dal lavoratore. Il tutto sul rilievo che il datore non si può sostituire al medico fiscale «nel compiere valutazioni tecnico-scientifiche che esorbitano dal proprio potere valutativo e discrezionale». Nessun dubbio che l’unico strumento a disposizione dell’azienda per effettuare il controllo medico sul dipendente sia chiedere all’Inps di procedere con la visita fiscale. Ma lo statuto dei lavoratori non impedisce al datore, fuori dai controlli sanitari, di accertare circostanze di fatto che dimostrano l’insussistenza della malattia. La società, dunque, può ricorrere al detective per accertare condotte del lavoratore che sono sì estranee al servizio ma risultano rilevanti per il corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto. In questo caso, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, gli accertamenti del datore non avevano una finalità sanitaria, ma lo scopo di dimostrare che la “malattia” lamentata dal dipendente non era incompatibile con l’attività lavorativa o l’assenza dalla stessa. Di qui la legittimità dell’accertamento effettuato dalla datrice tramite investigatore privato in quanto finalizzato a dimostrare l’inesistenza di una situazione in grado di ridurre la capacità lavorativa del dipendente.
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