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Quotidiano di informazione – Anno 36 n° 168

Demagonia: L’agonia della democrazia

Posted by fidest press agency su domenica, 19 Maggio 2024

By Enrico Cisnetto. La forza dei numeri. Lo si diceva una volta per rendere incontrovertibile un dato. Già, una volta. Ma nel frattempo devono averne persa molta per strada, di forza, se anche i numeri, nudi e crudi, fanno parte a pieno titolo della delirante contrapposizione italica tra destra e sinistra. L’Istat ha scattato la foto annuale sulla nostra condizione socio-economica, ed ecco che da destra – la stessa che fino a qualche tempo fa evocava il disastro nazionale, imputandolo alla sinistra – salgono grida di giubilo perché l’Italia nell’ultimo periodo è cresciuta più di Francia e Germania, perché il pil reale a fine 2023 è tornato ai livelli precedenti la crisi del 2007 e perché la disoccupazione scende mentre il tasso di occupazione della popolazione tra i 15 e i 64 anni ha raggiunto il 61,5%, guadagnando punti percentuali sia per gli uomini (70,4%) sia per le donne (52,5%). Insomma, l’Italia tira e chi lo nega è un disfattista che ha in mente solo il “pericolo fascista”. Contemporaneamente, a sinistra sale il lamento: è povero un italiano su dieci, cioè un esercito di 5,7 milioni di persone in cui non ci sono solo emarginati, disoccupati e precari, ma anche il 14,6% degli operai e l’8,2% dei lavoratori dipendenti; i salari sono da fame tanto che i consumi delle famiglie nell’ultimo decennio sono calati in termini reali (cioè al netto dell’inflazione) mediamente del 5,8%, con punte dell’8,8% per i ceti più bassi e persino del 3,2% per i più ricchi; la propensione al risparmio è calata del 6,3%. Insomma, coloro che nel passato, quando erano al governo, negavano il declino, oggi accusano chi sta a palazzo Chigi di aver provocato un impoverimento generalizzato del Paese e di incrementare gli squilibri sociali. Letti in questo modo, i dati dell’Istat perdono tutta la loro intrinseca terzietà e proiettano un’immagine di un Paese irriconoscibile. Perché tutti i numeri che ho riportato sono veri, ma sono fedeli alla realtà solo se letti insieme e valutati complessivamente, sottraendoli alle narrazioni politiche contrapposte. Così facendo si potrà vedere che i mali italiani sono trentennali, che la responsabilità di averli prodotti e poi di non averli affrontati e risolti è così generalizzata da non escludere nessuno, e che averli sottaciuti e continuare ad occultarli agli italiani è la premessa per quella che Mario Monti in un bel libro di cui consiglio vivamente la lettura (e di cui si è parlato nella War Room di giovedì 16 maggio, qui il link) ha ribattezzato “demagonia”, l’agonia della democrazia. Perché è vero che l’occupazione è cresciuta, e in particolare quella a tempo indeterminato (checché ne dica Landini), ma è altrettanto vero che retribuzioni sono troppo basse, ma è pur vero che la produttività – cioè il misuratore della ricchezza prodotta, da cui deve discendere un aumento dei redditi da lavoro – è stagnate quando non calante. Ed essere tornati al pil ante 2007 è cosa buona ma non deve farci perdere di vista il fatto che in 15 anni si è accumulato un divario di crescita di oltre 10 punti con la Spagna, 14 con la Francia e 17 con la Germania. Distacchi che peggiorano se a fare i calcoli si parte dal 2000: in un quarto di secolo la Spagna ci ha distanziato di 30 punti percentuali, Francia e Germania di 20. Per non parlare dell’inverno demografico, che ci ha sottratto 3 milioni di giovani negli ultimi dieci anni, e non solo a causa della denatalità, visto il forte flusso migratorio (fuga povera dal Sud e dei “cervelli” dal Nord). Insomma, se è vero che per guarire un ammalato la giusta cura non può che derivare da una diagnosi efficace, continuare a credere e far credere che l’Italia sia o già morta o sia perfettamente sana, è il modo peggiore per fare l’anamnesi e di conseguenza definire la terapia. E questo vale per le condizioni della macro economia, e in particolare per quelle della finanza pubblica, le cui difficoltà facciamo finta di non vedere salvo quando siamo costretti o per i controlli di Bruxelles – e allora definiamo matrigna l’Europa – o per i segnali che ci mandano i mercati con gli spread, che preferiamo immaginare pronti a ordire complotti contro di noi per volontà di chissà quali “poteri forti”. Vale per le condizioni del nostro capitalismo, che giudichiamo in modo ideologico: ricco, sporco e cattivo per le componenti più radicali di sinistra e destra, virtuoso per gli altri, senza per esempio misurare il basso tasso di disponibilità all’innovazione e l’alto tasso di propensione ad attaccarsi al bocchettone dei sussidi e della spesa pubblica. E vale per la società, per giudicare la quale si misurano solo i redditi, e per di più dimenticando l’amplia fascia di sommerso, e non i patrimoni, che rimangono più alti e più vastamente diffusi che negli altri paesi occidentali, nonostante la recente erosione dei risparmi. Ci vorranno anni perché le fila del grande ceto medio italico si assottiglino, trasformandoci in una “società miserabile di massa”. Ma è del paese che lasciamo ai nostri figli e nipoti, quello di cui stiamo parlando. Ed è a questa prospettiva, da rovesciare, che dovrebbero guardare coloro che, a destra come a sinistra, continuano ad ignorare i numeri e a chiudere gli occhi di fronte alla realtà. (Abstract by http://www.terzarepubblica.it direttore Enrico Cisnetto)

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