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Quotidiano di informazione – Anno 36 n° 168

Elezioni europee e consensi elettorali

Posted by fidest press agency su domenica, 16 giugno 2024

By Enrico Cisnetto direttore terza Repubblica. Prima di analizzare il risultato delle elezioni europee, vanno anteposte due questioni metodologiche. La prima: in termini politici, occorre considerare il numero assoluto dei consensi, non le percentuali rispetto ai voti espressi, anche se nulla toglie alla legittimità della rappresentanza che da esse deriva. La seconda: un conto sono le sensazioni e un’altra è la realtà dei fenomeni elettorali e delle loro conseguenze; sono entrambe degne di uguale attenzione, ma non vanno confuse. Detto questo, occhio perché nulla è come sembra. Considero anch’io, come per molti, deludenti e per certi versi preoccupanti queste elezioni. Ma per motivi del tutto diversi da quelli che sono stati fin qui evocati. La delusione nasce dal fatto che non si è compreso, più o meno in egual misura a ogni latitudine del Continente, l’importanza di questa consultazione elettorale rispetto alla dimensione dei problemi che abbiamo davanti e all’epocalità del contesto storico. L’Europa è in una fase di pre-guerra e rischia di interrompere dopo 80 anni il formidabile ciclo di “pace, sviluppo, progresso e benessere” iniziato nel 1945 con la fine del secondo conflitto mondiale. Cosa ci può essere di più forte e coinvolgente per fare una campagna elettorale incentrata su questi temi (e invece si è parlato di tutt’altro), per essere indotti ad andare a votare (e invece la media europea è stata del 51%, con oltre la metà dei paesi con più cittadini rimasti a casa di quelli andati ai seggi, fino al massimo di astensione del 77% in Croazia) e per votare i partiti sinceramente europeisti (in maggioranza è stato così, ma il risultato dei sovranisti francesi, tedeschi e in parte italiani allarma). Insomma, se queste elezioni dovevano rappresentare una risposta ferma e decisa ai disegni imperialisti di Putin, così non è stato. E qui sta la mia preoccupazione. Perché se è vero che quella della “marea nera che sommerge l’Europa” è solo una (brutta) sensazione solo molto parzialmente suffragata dai numeri, e che in fondo dalle urne è emersa una “continuità nella discontinuità”, con la vecchia maggioranza europeista composta da Popolari, Socialisti e Liberali un po’ indebolita (il PPE guadagna 8 seggi, ma Renew ne perde 23 e il S&D 5) ma sufficientemente solida, visto che con 400 seggi complessivi conserva un margine di 39 voti parlamentari sui 361 necessari per avere il controllo dell’europarlamento, tuttavia nulla toglie alla gravità della sconfitta patita da Macron e Scholz e all’indebolimento europeo che genera, considerato che Francia e Germania sono stati fin qui il cuore e il motore del Vecchio Continente. Ma alle categorie della delusione e preoccupazione non sfugge neppure l’Italia, anzi. Intanto per il livello raggiunto dall’astensionismo. Da noi ha votato solo il 49,69% degli aventi diritto, percentuale che scende a poco più del 48% se si considerano gli elettori italiani all’estero e al 42% nei luoghi dove non c’erano anche elezioni amministrative (lì il traino ha portato il voto al 62%). Nella prima elezione a suffragio universale dell’europarlamento, nel 1979, andò a votare oltre l’85% degli italiani. Poi via via il numero è sceso: nel 1994 al 74,6%, nel 2009 al 66,4% fino al 56% la scorsa volta nel 2019. Una curva discendente che riflette anche l’andamento elettorale nazionale, fino alle ultime elezioni politiche del 25 settembre 2022 quando a votare andò il 63,9%, o il 60% se si considera anche il voto estero. Ma mai nella storia repubblicana l’astensione aveva superato la metà degli aventi diritto. Sintomo indubitabile che la nostra democrazia non stia per niente bene e che l’importanza cruciale dell’Europa, specie in un momento come questo, non sia stata compresa. Dunque, i risultati del voto di sabato e domenica scorsa non possono che essere esaminati alla luce di questo dato. E quindi guardando il numero assoluto dei voti, e non le percentuali. Così facendo si scopre che rispetto a due anni fa Fratelli d’Italia ha perso 577 mila suffragi (6 milioni 724 mila contro 7 milioni e 301 mila voti), la Lega 371 mila (e qui bisogna anche considerare che Vannacci ha portato oltre 550 mila voti personali) e Forza Italia ne ha persi 290 mila. Ergo le forze di governo hanno avuto complessivamente 1 milione e 238 mila voti in meno. Aggiungete gli oltre 2 milioni di voti persi dai 5stelle e il milione e 316 mila persi complessivamente dal trio Calenda, Renzi, Bonino, senza i quali nessuno di loro ha potuto superare lo sbarramento del 4%, e avrete il quadro di una vera e propria fuga degli italiani dalla politica. Gli unici ad incrementare il bottino, sempre rispetto alle politiche, sono stati l’Alleanza verdi-sinistra, oltre mezzo milione di voti in più, e il Pd, che però partiva dal livello più basso della sua storia e ha aggiunto solo 287 mila voti. Insomma, ciascuno è libero di dire di aver vinto, guardando alle sole percentuali, e il governo può rivendicare la propria stabilità, ma deve essere chiaro che si è vinto perdendo voti e che chi vince resta decisamente minoritario nel Paese. E tutto questo perché siamo dentro una crisi del sistema politico che viene da lontano, e che più la si ignora, accontentandosi di vincere perdendo, e più si aggrava. Crisi che certo non si risolverà con la presunta “rinascita del bipolarismo” (che poi, quello vero non è mai nato e quello malato inventato da Berlusconi nel 1994 non è mai morto). D’altra parte, per capire di che pasta sia fatto il bipolarismo al femminile, il Giorgia-Elly di cui tanto si sproloquia, basta osservare (con raccapriccio) le scene parlamentari di questi giorni (gli stessi in cui si ricorda, poco e male, Giacomo Matteotti).

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