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Quotidiano di informazione – Anno 36 n° 172

Posts Tagged ‘curare’

Il dolore cronico si può curare

Posted by fidest press agency su domenica, 9 luglio 2023

Un concetto da cui si cerca di stare lontano, una problematica che in alcune culture viene addirittura oscurata o negata. Oggi più che mai, però, si può e si deve sdoganare l’idea per cui il dolore non sia curabile, soprattutto quando diventa cronico. Con il patrocinio dell’Associazione italiana per lo studio del dolore – AISD, di FederDolore – SICD, Fondazione ISAL, Fondazione Onda e della Società italiana di Medicina generale – SIMG, Sandoz Italia ha lanciato da Milano una campagna di informazione che mira proprio a una maggiore consapevolezza non solo dei pazienti, ma anche del personale medico sanitario e di tutti coloro che conoscono questa forma di dolore per via indiretta. “E tu sai cosa si prova? Superare il dolore si può” è infatti l’emblematico titolo scelto per puntare i riflettori su una problematica che ancora troppo spesso viene trascurata.Sandoz ha inoltre supportato un’indagine promossa dalla Fondazione Onda – Osservatorio nazionale sulla salute della donna e del genere. Il sondaggio è stato realizzato da Elma Research e i risultati parlano chiaro. Su una popolazione di 600 intervistati, perfettamente divisi tra uomini e donne, è emerso che il 34% ha avuto o affronta ancora il dolore cronico. A dare una definizione della patologia è stata la professoressa Maria Caterina Pace, docente di Anestesia e rianimazione all’università “Luigi Vanvitelli” di Napoli: “Si tratta di un dolore persistente che dura da almeno tre mesi, impattando gravemente sulla vita quotidiana della persona. Tra le tipologie più frequenti abbiamo il dolore muscolo scheletrico, ma c’è anche quello oncologico, da fibromialgia e così via. Non si può stabilire una vera e propria età media in cui la problematica insorge, perché dipende dalla malattia a cui il dolore è correlato”.Che al dolore cronico non ci sia rimedio è una falsa percezione causata dalla poca informazione sul tema. “Nonostante quasi tutti abbiano sentito parlare della patologia, l’informazione rimane a un livello superficiale, tant’è che il 55% dei nostri intervistati ha dichiarato di volerne sapere di più per capire come muoversi nel caso in cui si sviluppasse questa problematica”, ha aggiunto Carloni. “La consapevolezza tocca molto da vicino la popolazione e per l’86% di chi ha risposto al sondaggio le fonti da cui si vorrebbero maggiori notizie sono innanzitutto farmacisti e medici di medicina generale, i primissimi a cui il paziente si rivolge quando accusa un dolore che cresce e dura nel tempo”.Oltre a questo, ci sono altre due criticità notevoli quando si parla di dolore cronico. La prima riguarda il lungo percorso che porta alla diagnosi. Come emerso dal sondaggio, l’11% non ha ancora ricevuto una diagnosi che certifichi la malattia. “In media passano 6-7 mesi dal sintomo iniziale prima che le persone si rivolgano quantomeno al farmacista”, Carloni è entrata nel dettaglio dei dati. “C’è una tendenza a temporeggiare, a cercare il rimedio fai da te. La cosa ancor più impattante è scoprire che dal primo sintomo al rivolgersi a un medico passano due anni e poi altri 12 mesi per arrivare alla diagnosi effettiva. Se facciamo i conti, il paziente necessita di circa tre anni affinché sia riconosciuto il suo status di persona affetta da dolore cronico”. L’altro punto dolente è la presa in carico di chi affronta la malattia. La denuncia è arrivata dalla professoressa Pace: “È difficile, perché tutto sommato c’è una scarsa informazione e la rete di terapia del dolore funziona male. In alcune parti c’è, in altre no.

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“Prevenire è meglio che curare”

Posted by fidest press agency su domenica, 4 giugno 2023

Roma mercoledì 7 giugno alle ore 17.30 presso la sede sita in Borgo S. Spirito 3. L’Evento organizzato dall’Accademia Lancisiana e dall’Associazione Donne Protagoniste in Sanità costituisce l’inizio di un percorso per la lotta contro tutte le violenze che verrà in questa Sede formalizzato e successivamente implementato. L’evento si potrà seguire via web al link https://us06web.zoom.us/j/87263415573?pwd=cFRxNERYcHRIT1QwVlNYOFY0

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Ictus Silvestrini: “Pensare di curare la malattia solamente riaprendo un vaso può essere pericoloso”

Posted by fidest press agency su lunedì, 27 giugno 2022

“Diciamo no alla moltiplicazione delle Stroke Unit con piccoli volumi di attività, perché non sarebbero nell’interesse del paziente. Quanto alla trombectomia, pensare di curare la malattia solamente riaprendo un vaso, può essere pericoloso: il cervello è anatomicamente e funzionalmente più complesso del cuore. Ogni giorno lavoriamo in collaborazione con i cardiologi e con i cardiologi interventisti, ma il rispetto per le competenze può cambiare radicalmente il corso di una patologia e la vita delle persone”. Questa la reazione del Presidente di ISA-AII Italian Stroke Association-Associazione Italiana Ictus, Prof. Mauro Silvestrini all’allarme lanciato dal GISE sulla carenza di carenza in Italia di Unità Ictus e di una delle procedure utilizzate per disostruire i vasi occlusi, la trombectomia.“Il paziente colpito da ictus – prosegue Silvestrini – normalmente viene prima sottoposto a terapia farmacologica fibrinolitica per via endovenosa. In casi selezionati e in specifiche condizioni si procede con la trombectomia. Ricordiamo però che la procedura da sola non risolve: il trattamento offerto al paziente è efficace se c’è un percorso adeguato in cui l’intervento può avere un ruolo limitato, non per importanza, ma perché inserito nell’ambito di un percorso che è molto più articolato e che non è per tutti. Le evidenze ci dicono che ciò che migliora la prognosi del paziente non è un singolo passaggio ma una gestione appropriata e competente dell’insieme di problematiche che caratterizzano un ictus. Estrarre quel solo elemento da tutto il processo non migliora la speranza di vita di una persona”.“Noi – spiega il Presidente ISA-AII – abbiamo a che fare con il trattamento di una condizione che riguarda il cervello, che è un organo che chiaramente ha le sue peculiarità. Quindi è impensabile che qualsiasi tipo di gestione dei pazienti venga fatta al di là e al di fuori di una supervisione o competenza di tipo neurologico. Se è vero che alcuni pazienti non riescono ad avere un trattamento appropriato, ciò accade soprattutto quando il trasporto in Ospedale non avviene tempestivamente. Questo è minimamente influenzato dal numero delle Unità Ictus che sono attualmente 220 (64 delle quali in grado di effettuare la trombectomia) e che nella maggior parte delle regioni italiane, assicurano già una buona copertura, in netta crescita anche al Sud: prova ne è il numero sempre crescente di pazienti che viene sottoposto a un trattamento nella fase acuta. Bisogna sempre ricordare che l’adeguatezza di un centro e la capacità di effettuare trattamenti efficaci è relazionabile al numero di interventi che vengono eseguiti. Creare strutture che hanno ridotti volumi di attività o che solitamente si occupano di altri trattamenti, non vuol dire rendere un buon servizio alla comunità. Ciò che serve è l’ottimizzazione del funzionamento della rete, dalla consapevolezza dei cittadini sui sintomi al trasporto col 118. “Le figure del cardiologo e del cardiologo interventista sono preziose – conclude il Presidente ISA-AII -. In tutte le Unità Ictus esiste una collaborazione strettissima fra neurologo e cardiologo. La relazione, anche come Società Scientifica, è molto forte: la competenza cardiologica nell’ictus è fondamentale, basti pensare al tema della prevenzione secondaria. Tuttavia crediamo con forza che le competenze specifiche debbano restare tali, sempre nell’ambito di un lavoro di squadra. Un neuroradiologo non tratta l’ictus da solo, ma in collaborazione con l’intera Unità Ictus, normalmente gestita da neurologi, gli unici che possono dare indicazione all’intervento di trombectomia insieme al neuroradiologo, proprio perché tutto quello che viene fatto prima e dopo quell’atto richiede una visione della complessità della problematica. Scorporare questo segmento del percorso, senza uno sguardo d’insieme, non va a vantaggio della salute del paziente, che deve sempre essere al centro di tutti gli sforzi terapeutici della fase acuta dell’ictus”.

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“Curare gli anziani non autosufficienti a casa”

Posted by fidest press agency su domenica, 29 Maggio 2022

Martedì 7 giugno alle ore 21, l’Accademia di Medicina di Torino organizza una riunione scientifica, sia in presenza, sia in modalità webinar, dal titolo “Curare gli anziani non autosufficienti a casa”. L’incontro verrà introdotto da Luigi Maria Pernigotti, Primario Emerito di Geriatria e socio dell’Accademia di Medicina. Alessandro Bombaci, medico neurologo, e la dottoressa Margherita Marchetti dell’Associazione Amiche e Amici dell’Accademia (AAA) di Medicina di Torino ne discutono con i geriatri Renata Marinello e Gianluca Isaia e con il Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Salute Mentale, Vincenzo Villari. Le conclusioni saranno a cura di Giulio Fornero, Direttore sanitario di “Camminare insieme”. L’Accademia di Medicina di Torino, a fronte delle inaccettabili carenze nell’assistenza sanitaria e socio-sanitaria al malato cronico non autosufficiente, accentuate dai devastanti effetti della pandemia, ha prodotto un documento (link), messo a punto, sulla base di documentate evidenze scientifiche, da un gruppo di lavoro coordinato dal Presidente Giancarlo Isaia e composto dai Soci Giulio Fornero, Luigi Maria Pernigotti e Vincenzo Villari e dai Geriatri Gianluca Isaia e Renata Marinello: in esso, sottoscritto e condiviso da numerosi Soci e Amici dell’Accademia, vengono anzitutto richiamate le principali criticità nella gestione di questi malati, consistenti nella carenza di chiari obiettivi riabilitativi, in costi elevati, in risultati clinici insufficienti e soprattutto in conseguenze drammatiche sulla salute di una fascia debole di cittadini che, dopo decenni di lavoro, sono di fatto condannati all’emarginazione e ad una pessima qualità di vita, senza peraltro concrete possibilità di reagire a questa iniqua situazione. Vengono avanzate dieci proposte (link) che, se adeguatamente recepite, potrebbero condurre ad un più efficace approccio a cittadini affetti da patologie croniche non autosufficienti, ad un contenimento dei costi sanitari e ad una sostanziale soddisfazione dei pazienti e delle loro famiglie, spesso eccessivamente penalizzate. Con esse, ispirate dalla necessità che gli operatori sanitari assumano un diverso atteggiamento culturale nella gestione del paziente cronico non autosufficiente, che non può essere in alcun modo discriminato rispetto al malato affetto da patologie acute, si intende suggerire una condotta atta a promuovere una riorganizzazione delle cure per complessità clinica e funzionale, piuttosto che articolata in strutture specializzate per singole patologie, incentivando le cure domiciliari che, integrate dall’uso di moderne tecnologie come la telemedicina, costituiscono un’eccellente ed efficace metodologia di assistenza; si auspica infine una più efficace integrazione fra le cure ospedaliere e quelle territoriali, pianificando per ciascun malato un progetto individualizzato di cura e provvedendo anche all’erogazione di sostegni economici ai familiari, se disponibili ad assistere i propri congiunti. Si potrà seguire l’incontro sia accedendo all’Aula Magna dell’Accademia di Medicina di Torino (via Po 18, Torino), sia collegandosi da remoto al sito http://www.accademiadimedicina.unito.it.

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Disturbo bipolare, ecco come si riconosce e come si cura

Posted by fidest press agency su domenica, 21 novembre 2021

Un nuovo articolo pubblicato su BRF, house organ della Fondazione BRF Onlus – Istituto per la Ricerca scientifica in Psichiatria e Neuroscienze, fa il punto della situazione riguardo al disturbo bipolare, su come si riconosce e sulle possibili cure. Il disturbo bipolare colpisce oltre l’1% della popolazione mondiale, indipendentemente dalla nazionalità, dall’origine etnica o dallo status socioeconomico. Le fasce di età più coinvolte vanno dai 15 ai 35 anni (dati del World Health Organization, 2019) e, in particolare, colpisce i più giovani, provocando compromissioni cognitive e funzionali che possono portare persino al suicidio.L’impatto sociale ed economico di questa patologia è altissimo ed in estrema sintesi, questo tipo di disturbo si può definire cronico ricorrente e caratterizzato da fluttuazioni dello stato d’animo e dell’energia. Il disturbo si riconosce nel paziente attraverso sintomi ricorrenti depressivi (tristezza, perdita di interesse per le cose a cui si era solitamente interessati, perdita di energia e stanchezza, cambiamenti nell’appetito e nel sonno, sentirsi in colpa o inutili, bassa autostima, pensiero più lento, difficoltà di concentrazione, pensieri di autolesionismo e suicidio) uniti ad episodi maniacali (umore elevato, eccessiva irritabilità, rabbia, aumento di energia e/o irrequietezza, maggiore loquacità, perdita delle normali inibizioni sociali; disattenzioni finanziarie, diminuzione del bisogno di dormire, autostima gonfiata, incapacità di concentrazione, elevata energia sessuale). In realtà, non esiste un’unica forma di disturbo bipolare, ma se ne distinguono tre: il disturbo bipolare I, caratterizzato da episodi maniacali che durano almeno sette giorni e, in alcuni casi, talmente gravi da rendere necessaria un’assistenza di tipo ospedaliero. Gli episodi depressivi in genere durano almeno due settimane. Sono anche possibili episodi di disturbi dell’umore con caratteristiche miste (contemporaneità di depressione e episodi maniacali). Il disturbo bipolare II, che si caratterizza per episodi depressivi e episodi ipomaniacali di entità minore rispetto a quelli attraversati dai pazienti affetti dal disturbo di tipo I. E il disturbo ciclotimico (o ciclotimia), in cui in cui episodi ipomaniacali e sintomi depressivi non sono abbastanza intensi o non durano abbastanza a lungo da essere qualificati come tali. In questi casi i sintomi si registrano per almeno due anni negli adulti e per un anno nei bambini e negli adolescenti.Il disturbo bipolare per essere curato ha bisogno dell’intervento di uno specialista. Non sempre, però, è semplice da riconoscere perché i pazienti spesso valutano positivamente i periodi euforici delle fasi maniacali, seguiti da crolli emotivi che lasciano depressi, logorati, e spesso sono causa indiretta di problemi finanziari, legali, relazionali. Esistono difficoltà anche per una diagnosi della patologia da parte dello specialista, sia perché al momento non esistono biomarcatori, sia perché l’insorgenza è solitamente legata a un episodio depressivo che può spingere a diagnosticare una depressione unipolare. Nonostante queste oggettive difficoltà il trattamento medico riesce ad aiutare molti pazienti, anche quelli affetti dalle forme più gravi. I tipi più comuni di farmaci prescritti sono gli stabilizzatori dell’umore e gli antipsicotici atipici. Gli stabilizzatori dell’umore (come il litio) possono aiutare a prevenire gli episodi maniacali o depressivi o comunque ridurre la loro gravità. Nei piani terapeutici di trattamento agli stabilizzatori dell’umore vengono spesso associati farmaci che mirino a regolarizzare il sonno e i livelli di ansia. In combinazione con i farmaci viene spesso utilizzata anche la psicoterapia, allo scopo di aiutare i pazienti a modificare emozioni, pensieri e comportamenti.Attualmente le linee di ricerca più interessanti a livello internazionale sono quelle che cercano di definire terapie sempre più personalizzate. Tra i tanti studi di ambito prettamente clinico è interessante citarne uno dai risvolti anche sociologici che ribalta la diffusa percezione dei pazienti bipolari come persone violente. Tra i pazienti coinvolti nello studio solo l’1% ha infatti mostrato atteggiamenti aggressivi verso altre persone, mentre in altri casi è stata registrata violenza verso gli oggetti oppure esclusivamente verbale. Inoltre, durante i periodi di benessere gli episodi di violenza registrati tra i pazienti affetti da disturbo bipolare non di discostano, quanto a frequenza, da quelli misurati nel resto della popolazione [Journal of Psychopathology, 2021 (fonte doctor33)

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Prevenire e curare: Carmine Melino award lecture

Posted by fidest press agency su sabato, 19 dicembre 2020

Il prossimo 21 dicembre, dalle 14:30 alle 16, il dr. Giuseppe Ippolito terrà la “Carmine Melino Award Lecture”, in diretta streaming, nel centenario della nascita del professor Carlo Melino, professore di Igiene presso l’Università di Roma Sapienza. L’intervento di Ippolito si intitola “COVID-19: i numeri dicono sempre la verità?” e passerà in rassegna le sfide senza precedenti che l’attuale pandemia causata dal virus SARS-CoV-2 pone alla comunità scientifica e a tutti i cittadini: da una parte le misure di restrizione mirate a limitare il contagio che riducono i rischi per la salute ma pongono un insostenibile stress al sistema economico; dall’altra, la ricerca scientifica che investe sforzi e risorse nello sviluppo di cure, nuovi farmaci e vaccini.

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Covid 19: curare le “ferite” di chi cura

Posted by fidest press agency su domenica, 17 Maggio 2020

Medici e infermieri non sono vulnerabili solo rispetto al rischio di contrarre il coronavirus. Anche quando le misure preventive e protettive sono adeguate, restano esposti a un alto livello di stress psicologico, oltre che fisico, e mai quanto ora, hanno bisogno di un supporto psicologico, per far fronte alle difficoltà generate dalla situazione contingente, per evitare lo sviluppo o l’esacerbazione di problemi psicologici.Per questo motivo Boehringer Ingelheim Italia, che fin dall’inizio della pandemia ha dimostrato la propria vicinanza alla popolazione, ai pazienti e a coloro che se ne prendono cura, offrendo il proprio sostegno attraverso diversi iniziative, ha deciso di sponsorizzare un progetto di supporto psicologico rivolto agli operatori sanitari, per permettere loro di elaborare emozioni e stati d’animo vissuti nello svolgimento del servizio emergenziale, offrendo una consulenza specialistica sulla gestione dello stress emotivo, a tutela del loro equilibrio psicofisico.
Il progetto è realizzato dalla Cooperativa Sociale Onlus Spazio IRIS – Istituto di Ricerca e Intervento per la Salute, con l’obiettivo di “trasformare i limiti in risorse”. Spazio IRIS è una Welfare Company che opera nel settore della clinica, della ricerca e della formazione in ambito sanitario, fondata nel 2013 dai dott.ri Luca Granata e Tiziano Schirinzi con l’obiettivo di una realtà creativa e in dialogo costante con la comunità scientifica. Spazio IRIS mantiene da sempre fede ad un pensiero che tenga conto della soggettività della persona visto come primo obiettivo di un buon intervento professionale. Sostanzialmente il lavoro degli psicologi del progetto consiste nell’analizzare le complessità, le difficoltà e le fragilità del singolo, prima che queste si trasformino in problemi. Gli stessi guideranno il medico o l’operatore sanitario nell’individuazione del problema, sviluppando nuove prospettive e percezioni dello stesso e delle proprie risorse per affrontarlo. L’obiettivo finale è accompagnare l’utente fornendo strategie per far fronte alla complessità.In prima battuta sarà attivato, con l’aiuto di alcuni psicologi del centro Spazio IRIS, con competenze specifiche di materia emergenziale e di coaching strategico, un numero verde per rispondere a domande che necessitano di una risposta diretta e immediata, per arginare da subito la situazione. Un triage psicologico capace di accogliere e valutare la situazione dell’utente. Successivamente viene proposto di programmare un minimo di tre incontri virtuali con uno psicologo psicoterapeuta. In questa fase saranno utilizzate tecniche di “coaching breve strategico”, tecniche di gestione emotiva e problem solving con l’obiettivo di lavorare sulle risorse della persona, ottimizzando la capacità di far fronte alla condizione stressante e suggerendo strategie per affrontare le complessità che si presentano sia in ambito lavorativo, che familiare.
Il progetto prevede una durata di tre mesi, in modo da sostenere il medico o l’operatore sanitario per tutto il tempo della finestra emergenziale, mantenendo attivi comportamenti produttivi ed evitando le ricadute.

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Curare le malattie e la variabile economica

Posted by fidest press agency su mercoledì, 15 aprile 2020

Significa anche migliorare la qualità della vita e renderla più longeva. Già di per sé potrebbe diventare una condizione “destabilizzante” per quanto benefica ed esaltante possa apparire.
Dobbiamo, purtroppo, partire dal presupposto che non tutti potranno beneficiare dei progressi della scienza e chi lo potrà fare, determinerà inevitabilmente una selezione della specie. Sarà, ed è inevitabile, chi ha maggiori risorse economiche, di uno status sociale più avanzato e vive in società evolute. Quanti potranno essere oggi nel mondo? Trecento, quattrocento milioni? E gli altri che fine faranno? È un interrogativo che ci lascia molto perplessi su ciò che significa progresso, nel senso più ampio della parola, per la sua capacità di rendersi reale in ogni parte del mondo. Se non si raggiunge questa condizione esistenziale e molto diffusa noi corriamo il rischio di degenerare l’intero sistema e di offrire il fianco ad una lotta brutale e sanguinaria tra chi può ed ha e tra chi non può e non ha. Da una parte vi sarà l’individuo e dall’altra il numero. Per un verso crescerà la voglia di progredire e dall’altro s’instaurerà la propensione alla distruzione. La risposta più saggia potrebbe essere quella d’ancorare il progresso alla sua diffusione e alla possibilità di renderlo accessibile a tutti. Sta qui la forza culturale, che va proposta, e che i politici possono rendere più efficace e credibile perché i nemici dell’uomo non vengono dal progresso ma dal modo come taluni riescono ad asservirlo ai propri interessi. Ci vuole, a questo punto, un controllore credibile e autorevole e super partes che ci faccia da garante. (Riccardo Alfonso)

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Conoscere e Curare il Cuore

Posted by fidest press agency su giovedì, 7 marzo 2019

Firenze, 28/02 – 3/03 2019. Il simposio organizzato da Bayer «Rivaroxaban: protezione su misura per pazienti con malattie cardiovascolari» fa il punto sui nuovi approcci terapeutici nel paziente “fragile” Negli ultimi vent’anni l’incremento della popolazione anziana ha determinato un aumento delle patologie croniche, tra cui quelle del sistema cardio-vascolare. In Italia, ad esempio, l’ictus è responsabile ogni anno del 10 – 12% di tutti i decessi, per questo motivo richiede un’importante gestione preventiva dei fattori di rischio, soprattutto in pazienti affetti da Fibrillazione Atriale, una frequente anomalia del ritmo cardiaco che ha una prevalenza stimata fra l’1% e il 2% della popolazione generale (ma ben il 10% degli ultra-ottantenni), ed è causa del 15-20% di tutti gli ictus trombo-embolici.In presenza di Fibrillazione Atriale, per esercitare misure preventive adeguate, viene raccomandata una terapia anticoagulante valida.L’utilizzo di una terapia anticoagulante alternativa a quella tradizionale (antagonisti della vitamina K – AVK), rappresentata dagli anticoagulanti ad azione diretta (DOAC – Direct Oral Anti Coagulant), viene considerata una tappa fondamentale nella prevenzione delle complicanze tromboemboliche della Fibrillazione Atriale, in accordo con le più recenti Linee Guida europee.
Nonostante i vantaggi introdotti dai nuovi anticoagulanti orali, ad oggi, si registra ancora un sottoutilizzo degli stessi, a discapito, soprattutto, di una corretta gestione dei pazienti complessi o cronici, il cui percorso terapeutico comporta un lavoro integrato tra diversi specialisti. Eppure, l‘introduzione nella pratica clinica dei DOAC attualmente disponibili è stato preceduto da rigorosi studi Internazionali di confronto tra le singole molecole e gli antagonisti della vitamina K. Tali studi hanno dimostrato una pari o superiore efficacia preventiva dello stroke e degli eventi tromboembolici sistemici dei nuovi farmaci rispetto al warfarin (AVK), con minori effetti secondari emorragici e con particolare riguardo agli eventi maggiori (emorragie intracraniche e sanguinamenti fatali).
Oltre a un aumento del rischio di eventi cerebrovascolari, legati al ruolo riconosciuto della Fibrillazione Atriale come fattore di rischio, un paziente può presentare altre condizioni di «fragilità»: come l’insufficienza renale o malattie oncologiche.Rispetto alla popolazione generale, i pazienti affetti da insufficienza renale cronica hanno un rischio maggiore sia di stroke che di sanguinamento: diventa, quindi, fondamentare una terapia anticoagulante in grado di proteggere da entrambi i rischi.
Nonostante le attuali Linee Guida raccomandino l’impiego di antiaggreganti piastrinici per il trattamento di CAD e PAD, purtroppo questa terapia lascia esposti i pazienti ad una elevata percentuale di eventi cardiovascolari. Per questo motivo Bayer, mediante lo Studio Compass, ha indagato una nuova e più efficace terapia per il trattamento di CAD e PAD.
Nei pazienti affetti da CAD e PAD, rivaroxaban al dosaggio vascolare di 2,5 mg due volte al giorno associato ad aspirina 100 mg una volta/die, ha ridotto il rischio combinato di ictus, infarto del miocardio e morte per cause cardiovascolari del 24% rispetto ad aspirina 100 mg una volta/die in monoterapia.La terapia combinata rivaroxaban/aspirina ha inoltre ridotto del 42%, 22% e 14%, rispettivamente il rischio relativo di ictus, mortalità per cause vascolari e di infarto, mostrando un buon profilo di sicurezza.Un altro elemento significativo è che in pazienti affetti da PAD, con arteriopatie periferiche, si è avuta una significativa riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori a carico degli arti (-46%), e una riduzione imponente (-70%) delle amputazioni degli arti legate a cause vascolari.Lo Studio è stato interrotto dopo un tempo medio di trattamento di 23 mesi, in anticipo sui tempi stabiliti, per manifesta superiorità della terapia combinata rivaroxaban/aspirina rispetto al braccio di confronto.

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Misure per prevenire e curare

Posted by fidest press agency su sabato, 18 agosto 2018

“Al fine di proseguire, è scritto in un comunicato reso agli organi d’informazione dai promotori del Progetto Sociale ANLEP, in modo sempre più efficace – la nostra azione pluriennale in direzione della prevenzione sanitaria abbiamo stipulato un accordo con le seguenti primarie strutture sanitarie di Roma: Ospedale San Carlo di Nancy; Villa Tiberia Hospital; Istituto Clinico Cardiologico, Centro polispecialistico DATA MEDICA che fanno parte del Gruppo Villa Maria (GVM Care & Research) una rete integrata di Ospedali di Alta Specialità, Polispecialistici e Day Surgery con Poliambulatorio privato, che coinvolge numerose regioni italiane e si estende anche all’estero. Il Gruppo, avendo posto da anni il cittadino-utente al centro di un percorso di professionalità e qualità dell’assistenza, possiede indubbie doti di sensibilità in materia di attenzione alla persona talchè è accreditato come partner del SSN e si propone come polo di eccellenza nella prevenzione e cura della salute. Rappresenta quindi un partner privilegiato per conseguire gli obiettivi del nostro settore organizzativo CIRCUITO I CARE dedicato alla prevenzione sanitaria.
In base a tale intesa, a partire dal giorno 24 settembre (data del Convegno di presentazione del Progetto Sociale “MISURE PER PREVENIRE E CURARE” presso l’Ospedale San Carlo di Nancy), diverrà operativo un pacchetto CHECK UP gratuito, pensato all’interno del Progetto stesso al fine di offrire, con cadenza mensile, la possibilità di un controllo generale sul proprio stato di salute a tutti gli iscritti (inclusi i familiari) alle Associazioni collegate, agli amici, ai simpatizzanti. (Dott. Domenico Famiglietti)

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Curare il diabete con i trapianti di isole pancreatiche o di staminali

Posted by fidest press agency su sabato, 24 ottobre 2015

cellula staminaleItalia prima della classe nel mondo per la ricerca sulla terapia cellulare del diabete, ma situazione kafkiana per gli aspetti amministrativi. Il DRG per i trapianti di isole esiste ma non viene rimborsato. E questo penalizza anche l’assegnazione di fondi di ricerca internazionali. Il punto della situazione dal Riccione, dal congresso Panorama Diabete della Società Italiana di Diabetologia, dagli aspetti amministrativi alle nuove frontiere della ricerca, con uno dei massimi esperti internazionali del settore, il professor Lorenzo Piemonti, Coordinatore del Gruppo di Studio della Società Italiana di Diabetologia (SID) ‘Medicina Rigenerativa in diabetologia’, membro del comitato scientifico della SID e Deputy Director del Diabetes Research Institute dell’IRCCS San Raffaele di Milano.‘Panorama Diabete’ è un congresso dedicato agli aspetti pratici della gestione del diabete, con un occhio di attenzione rivolto alle conoscenze ‘di frontiera’ come la medicina rigenerativa, dai trapianti di isole pancreatiche a quelli di staminali riservata a quelle forme di diabete difficilissime da controllare anche con le migliori terapie a disposizione. In questo settore la ricerca Italia fa scuola nel mondo. Ma non mancano i problemi sul fronte amministrativo. “Uno dei principali problemi del trapianto di isole – afferma Lorenzo Piemonti – è che c’è un’ampia eterogeneità nel riconoscimento da parte degli health care system. In Italia ad esempio il trapianto di isole non è proprio considerato; esiste un DRG ma senza corrispettivo economico. In altre parole non viene rimborsata né la procedura di isolamento, né quella di trapianto delle isole pancreatiche. Diversa invece la situazione in Inghilterra, Svizzera o Canada dove il trapianto di isole è riconosciuto e rimborsato; mentre in Francia e negli USA la procedura è in fase di approvazione (negli USA è in dirittura d’arrivo lo studio registrativo di fase 3 CIT07)”.
In Europa questa materia viene dibattuta separatamente nei vari Stati, che procedono dunque a diverse velocità. In Inghilterra il Ministero della Salute attraverso il National Insitute for Health and Care Excellence (NICE) si è già pronunciato in materia, la Francia lo sta dibattendo, in Italia non è ancora chiaro chi debba occuparsene, se lo Stato o le Regioni. “Tutto ciò dovrebbe essere motivo di riflessione – afferma Piemonti – pur essendo noi uno dei Paesi che in questo campo ha sviluppato e continua a sviluppare un’eccellenza scientifica e clinica (il San Raffaele è uno dei centri clinici con il più alto volume di trapiantati al mondo – quasi 200 pazienti trapiantati dal 1989), collocandoci tra il secondo e il terzo posto a livello mondiale come volume di trapianti e leader mondiali della ricerca, non abbiamo ancora la copertura economica per il DRG del trapianto di isole nella sua applicazione clnica. Questo tra l’altro ci penalizza anche molto nella competizione per l’assegnazione di fondi a livello internazionale. Se la Juvenile Diabetes Research Foundation (JDRF), una delle organizzazioni internazionali più importanti che finanzia i progetti di ricerca per il diabete di tipo 1, deve decidere se finanziare un progetto di ricerca sul trapianto di isole in Inghilterra o in Italia, sceglierà l’Inghilterra perché facendolo lì non dovrà supportare i costi della procedura, cosa che invece deve fare in Italia. Quindi a parità di capacità l’Italia risulta svantaggiata nelle competizioni internazionali rispetto a paesi come Inghilterra, Canada, Svizzera e presto anche Francia”.Ma quanto costa un trapianto di isole? “Il problema – spiega Piemonti – non è quanto costa, ma come si pone rispetto al trapianto di pancreas, del quale è un’alternativa, come sanciscono le linee guida della SID e di tutte le società che si occupano di terapia sostitutiva. Da un punto di vista del payer quindi il costo non potrà essere superiore a quello di un trapianto di pancreas che, a seconda delle Regioni, oscilla dai 14 ai 27 mila euro circa. L’indicazione al trapianto di isole o di pancreas è la stessa: il trattamento delle cosiddette ipoglicemie problematiche. Il trapianto di pancreas rispetto a quello di isole garantisce una maggior raggiungibilità dell’indipendenza dall’insulina nel tempo (essenzialmente perché vengono trasferite un maggior numero di isole nel trapianto di pancreas). Però il trapianto di pancreas ha lo svantaggio che, essendo una procedura chirurgica ‘maggiore’, è gravata da complicanze più importanti (mortalità e morbilità) rispetto al trapianto di isole (che si fa in anestesia locale). Quindi maggior efficacia per il trapianto di pancreas e migliore safety per quello di isole. “Stiamo vivendo un periodo molto interessante – afferma Piemonti – che necessita di una elaborazione nuova dal punto di vista culturale, scientifico, regolatorio e amministrativo. Da questo è nata all’interno della Società Italiana di Diabetologia la necessità di costituire anche un gruppo di studio di medicina rigenerativa in diabetologia, proprio perché la posta in gioco è alta e qualificherà nel futuro sia la diabetologia che, più in generale, la capacità del nostro sistema Paese di poter essere tra i primi a lavorare su questa tipologia di approccio che contiene, almeno potenzialmente, possibilità terapeutiche importanti per diversi campi della medicina: dalla neurologia alla cardiologia fino alla diabetologia. La sostituzione della funzione delle cellule beta, per le sue caratteristiche intrinseche, in termini clinici potrebbe essere quello che arriverà al successo prima degli altri”.

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E’ importante curare il diabete? “Si, senza dubbio. Ma con le giuste istruzioni per l’uso”

Posted by fidest press agency su venerdì, 18 settembre 2015

diabete_21-300x224Stoccolma. Perché è importante trattare il diabete e secondo quali principi: su questo tema il professor Stefano Del Prato, Presidente della Fondazione Diabete Ricerca della Società Italiana di Diabetologia che ha tenuto un’apprezzatissima lettura al congresso della European Association for the Study of Diabetes (EASD). “No al trattamento ‘a taglia unica’, si a quello ispirato alla medicina di precisione – sottolinea Del Prato – che deve tener conto oggi di una serie di caratteristiche cliniche del paziente, riassunte nell’acronimo ABCDE, ma che già strizza l’occhio al futuro, quando saranno disponibili indicatori di farmacogenomica e biomarcatori, rilevabili da un semplice prelievo di sangue, per una terapia realmente su misura”.
E’ importante migliorare il controllo della glicemia, nell’ottica di ridurre il rischio vascolare?
La domanda può sembrare di per sé di poco senso perché trattandosi di pazienti diabetici iperglicemici, la cosa più ovvia da pensare è che sia necessario migliorare il controllo della glicemia. E questo è sempre stato supportato dall’idea che migliorare il controllo della glicemia è efficace nel prevenire le complicanze microvascolari, cioè quelle a carico di reni, occhi e nervi. Purtroppo i risultati di studi anche importanti su grandi numeri, tesi a migliorare il controllo della glicemia, non hanno dato grandi soddisfazioni sulla riduzione del rischio delle malattie cardiovascolari, che rimangono la principale causa di morte nella popolazione diabetica. Da qui nasce la domanda: ma ha senso controllare la glicemia, visto che tra l’altro in alcuni casi, un controllo stretto della glicemia si associa ad un qualche potenziale rischio, quale quello delle crisi ipoglicemiche? E’ solo una domanda retorica naturalmente, alla quale si può rispondere solo ‘si, è necessario controllare la glicemia ovviamente’. Intanto per controllare il rischio di complicanze microvascolari. Ma anche perché sono disponibili dati che dimostrano che, se opportunamente trattato il diabete già nella fase iniziale, questo può tradursi in un miglioramento significativo del rischio cardiovascolare, in particolare del rischio di infarto del miocardio, che si riduce di circa il 15%. Quello che emerge da tutti gli studi, sia di intervento sia quando si utilizzano i dati generali associati, è una specie di ‘numero magico’, perché tutti indicano una riduzione del 15% del rischio cardiovascolare. Mentre il rischio micro-vascolare, con un buon controllo glicemico, si riduce di almeno il 25-30%.
Ma questi sono dati generali, ‘medi’. Quando si va ad osservare più attentamente, si scopre che all’interno della totalità della popolazione diabetica ci sono dei sottogruppi che rispondono in modo completamente diverso ai trattamenti. Una recente analisi dello studio ACCORD ad esempio ha confrontato i soggetti con insufficienza renale, con quelli con una normale funzionalità renale. Ne è risultato che i soggetti con insufficienza renale, a parità di controllo glicemico, sono esposti a maggiori rischi. Ulteriori analisi di questo e di altri studi di intervento hanno dimostrato che la risposta ai trattamenti anti-diabetici varia anche in base all’età, e alla durata della malattia, che più alte sono, più definiscono una popolazione a maggior rischio. È necessario dunque essere coscienti di qual è il rapporto costo-beneficio dei trattamenti all’interno di queste diverse popolazioni.
Ma allora, visto che ci sono altri fattori di rischio cardiovascolari, quali ipercolesterolemia e ipertensione, il cui trattamento ai fini della riduzione del rischio cardiovascolare è molto vantaggioso, perché non limitarsi a correggere quelli e ‘dimenticare’ per un po’ della glicemia?
Perché esistono importanti dati epidemiologici che dimostrano come il diabetico, anche con colesterolo e pressione normali, continui ad avere un rischio di mortalità cardiovascolare che è doppio rispetto ad un soggetto senza diabete. Quindi il vero obiettivo è trattare tutti i fattori di rischio cardiovascolari, senza trascurarne alcuno. E recenti analisi dimostrano proprio come trattare un fattore di rischio, rispetto a trattarne due, è meno efficace in termini di eventi ma anche in termini di riduzione di ricoveri e di controlli ambulatoriali. Trattare tutti i fattori di rischio porta dunque notevoli vantaggi anche in termini di spesa e di qualità di vita.
Quali sono i giusti obiettivi glicemici da perseguire con la terapia, allora?
L’obiettivo terapeutico di una persona con diabete di tipo 2 deve essere quelli di un controllo glicemico che sia adeguato alla propria condizione. Anche l’obiettivo di emoglobina glicata da raggiungere deve cioè essere personalizzato. I soggetti senza complicanze, quelli giovani e con recente diagnosi di diabete dovrebbero essere trattati in modo estremamente intensivo per raggiungere valori di glicemia quanto più vicini alla normalità, cioè un’emoglobina glicata pari o inferiore al 7%, perché questo si traduce in una protezione a lungo termine. Invece nei soggetti che vanno incontro ad episodi di ipoglicemia, in quelli che abbiano già delle complicanze in atto, come l’insufficienza renale, in quelli con una ridotta spettanza di vita è indicato un controllo glicemico un po’ più rilassato, pari a valori di emoglobina glicata superiori a 7, fino ad arrivare a 8-8,5%.
Che tipo di peso ha nella scelta di un trattamento la sua safety?
La sicurezza del trattamento è fondamentale e questo concetto si è imposto all’attenzione generale perché nello studio ACCORD è stato rilevato un aumento del rischio di mortalità, tra i soggetti trattati. Ma andando ad analizzare bene quali fossero i soggetti con questo eccesso di rischio di mortalità, si è scoperto che si tratta di un gruppo abbastanza piccolo, che per qualche ragione non chiara, nonostante l’intensificazione della terapia, continua ad avere un valore di emoglobina glicata, cioè di controllo glicemico, non buono. Come se fossero resistenti a qualsiasi forma di trattamento. Questo significa che dobbiamo imparare a conoscere meglio i pazienti con diabete perché sono una popolazione eterogenea, composta da vari gruppi, all’interno dei quali alcuni possono risentire in maniera estremamente positiva di uno stretto controllo glicemico, mentre altri potrebbero essere esposti ad un qualche rischio; per questo è necessario diversificare gli obiettivi terapeutici. Trattare l’iperglicemia è importante, ma gli obiettivi di trattamento devono essere individualizzati.
Come fare dunque a personalizzare il trattamento del diabete scegliendo il farmaco giusto per il paziente giusto?
Ovviamente questo non è compito facile. Probabilmente in futuro avremo degli indicatori che ci consentiranno di distinguere questi gruppo dal totale della popolazione diabetica. Noi abbiamo suggerito un modo abbastanza empirico per tenere a mente gli elementi che possono aiutare a definire gli obiettivi del controllo glicemico, definiti dalle prime 5 lettere dell’alfabeto: A come ‘age’ (età), B come ‘body weight’ (peso corporeo: soggetto grasso, soggetto magro), C come complicanze (la presenza, l’assenza, il grado di severità delle complicanze o di altre patologie associate), D come ‘durata della malattia’ e infine la E, che ha 3 significati: E come eziologia (cioè quello che sta al di sotto e che genera l’iperglicemia in termini di meccanismi); E come educazione ed empowerment dei pazienti, che è una componente essenziale del risultato della cura; infine E come economia, che è qualcosa con la quale abbiamo a che fare quotidianamente e che va tenuta presente anche nella gestione della persona con diabete. Terapia personalizzata significa ‘medicina di precisione’: cercare di individuare qual è il farmaco o la strategia terapeutica più adeguata per quel particolare individuo. Abbiamo bisogno di indicatori guida in questo senso. Una strategia molto empirica, come visto, è l’ABCDE. Per il futuro avremo indicatori più precisi quali quelli della farmacogenetica, marcatori genetici in grado di darci informazioni sia sulla possibilità di risposta ad un certo tipo di trattamento, sia sul possibile rischio di effetti collaterali per quella terapia. Stiamo cercando di individuare anche dei biomarcatori, indicatori facilmente acquisibili da un prelievo di sangue o un campione di urine, che ci permetteranno di identificare quei soggetti con caratteristiche tali per avere l’indicazione ad un trattamento rispetto ad un altro.

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Metilfenidato per curare dipendenza da cocaina

Posted by fidest press agency su domenica, 1 agosto 2010

Il metilfenidato (Ritalin) ha ottenuto buoni risultati in uno studio coordinato dallo psichiatra Chian-shan Ray Li, dell’università di Yale (Usa) e pubblicato su Pnas, nel trattamento della dipendenza da cocaina. I ricercatori statunitensi hanno somministrato il medicinale o un placebo a un gruppo di volontari con problemi di dipendenza dalla sostanza e, successivamente, è stato loro chiesto di svolgere alcuni compiti al computer, studiati per testare il controllo degli impulsi. Quelli che avevano utilizzato il metilfenidato hanno dimostrato maggiori capacità di controllo rispetto al gruppo di controllo. Secondo lo psichiatra, il farmaco migliora le possibilità di inibire gli impulsi nei cocainomani e potrebbe quindi rappresentare una nuova terapia, in particolare nelle persone in cui la dipendenza dalla droga e legata ad una perdita di controllo. (fonte farmacista33)

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Curare il dolore

Posted by fidest press agency su domenica, 11 luglio 2010

La cura del dolore nell’anziano si basa su metodi differenti a seconda del grado di autonomia mentale del paziente. Nel caso dell’anziano autosufficiente, ovvero in grado di riferire e misurare il dolore, il principale curante di fatto non è il medico, bensì il paziente stesso, che spesso sa quale è il farmaco analgesico più efficace ed è quasi sempre in grado di autocurarsi. Fa poco riferimento al medico, tranne quando il dolore è intenso o persistente o percepito come pericoloso (soprattutto quando non noto); è quindi a rischio di severe complicazioni, perché spesso usa analgesici da banco, i cosiddetti antinfiammatori non steroidei. Si tratta di farmaci comuni e molto efficaci perché bloccano l’infiammazione che genera la maggior parte del dolore nell’anziano (ad es. da artrosi o tensione muscoloarticolare). Gli antinfiammatori hanno però un grosso limite: dopo il terzo giorno di trattamento comportano un rischio crescente di sviluppare ulcera gastro-duodenale, emorragia gastro-intestinale, insufficienza renale e scompenso cardiaco. L’elevata incidenza di ricoveri in pronto soccorso di anziani per effetti collaterali da antinfiammatori conferma che la “autocura” di solito si protrae per parecchi giorni o settimane. L’ “abuso” di antinfiammatori è giustificata dal fatto che nell’anziano il dolore tende ad essere persistente (una riacutizzazione può durare settimane o mesi), in quanto secondario a patologie degenerative ad evoluzione cronica, che inducono un peggioramento della qualità della vita a seguito della riduzione dell’autosufficienza, dell’aumento delle cadute, della depressione dell’umore e dell’insonnia. L’obiettivo razionale della cura del dolore nell’anziano è evitare queste complicazioni, attraverso una terapia antidolorifica che non sia essa stessa causa di malattia. Oggi il medico ha una combinazioni di interventi farmacologici e non (terapia fisica, microinvasiva, chirurgica,…..) tali da consentirgli di raggiungere l’obiettivo di un controllo efficace del dolore nei 2/3 degli anziani. Come in tutte le imprese difficili serve però qualche cosa di “innovativo”, quale una maggiore collaborazione fra paziente e medico: il primo mostrando una maggiore disponibilità a riferire il suo dolore, il secondo ad ascoltare, diagnosticare e curare il suo paziente e non solo il suo dolore. (Simone Franzoni Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia)

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Prevenire e curare le malattie del fegato

Posted by fidest press agency su venerdì, 23 aprile 2010

Empoli  24 aprile presso uno stand allestito nel viale d’ingresso dell’ospedale “San Giuseppe” di Empoli, medici e infermieri dell’unità operativa di gastroenterologia dell’Asl 11 saranno disponibili, dalle ore 10 alle ore 18, per fornire informazioni, rispondere alle domande degli utenti ed anche per effettuare gratuitamente la misurazione delle transaminasi. Questo esame avverrà attraverso un prelievo di sangue capillare ottenuto tramite una piccola puntura sul dito. I risultati di questo piccolo prelievo verranno consegnati all’utente in tempo reale affinché ne informi il proprio medico curante. Secondo i valori ottenuti delle transaminasi il medico di famiglia potrà, quindi, indirizzare il paziente verso centri specializzati per l’approfondimento diagnostico necessario.  Lo scopo della giornata di sensibilizzazione, dunque, è quello di individuare alterazioni epatiche asintomatiche tramite il dosaggio delle transaminasi, che quasi sempre sono espressione di flogosi parenchimale, tramite la compilazione di un breve questionario e attraverso un colloquio mirato con uno specialista. “Conosci il tuo fegato?” è un’iniziativa organizzata dall’Associazione Epatologi della Toscana onlus con la collaborazione delle aziende sanitarie che vi hanno aderito ed il patrocinio della Regione Toscana.Il 24 aprile, oltre a Empoli, la manifestazione si terrà a Grosseto, Firenze, Pistoia, Prato e Siena.

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Teatro: L’ultimo respiro

Posted by fidest press agency su martedì, 19 gennaio 2010

Roma dal 19 al 24 gennaio TeatroLoSpazio.it via Locri, 42 Traversa di via Sannio  – Metro San Giovanni Overlook  presenta per la prima volta in Italia L’Ultimo respiro di Reza de Wet con Francesca Romana Degl’Innocenti Greta Bellusci Fabrizio Nevola Amedeo D’Amico Regia Massimiliano Zeuli  L’ultimo respiro (Breathing in, di Reza de Wet) è una storia d’amore “nero” diretta dal regista Massimiliano Zeuli.Anna (Francesca Romana Degl’Innocenti), alchimista esperta di erbe, si prodiga per curare la figlia Annie (Greta Bellusci), molto malata: la scalda, la veste a festa e la costringe a non addormentarsi, sostenendo che altrimenti sprofonderebbe in un sonno eterno. E’ una notte tempestosa; aspettano qualcuno. Anna è convinta che tale incontro sia l’ultima speranza di vita per la figlia, come lo erano stati gli altri, d’altra parte.Ed ecco che giunge Brand (Fabrizio Nevola), giovane ufficiale, per sincerarsi delle condizioni di salute del generale ferito (Amedeo D’Amico) durante la guerra che li tormenta da anni, e che Anna sta curando. Brand si troverà ad affrontare una terribile scelta.Alchimia, sogno e maleficio nutrono un amore condannato all’eterno sacrificio da vivere fino all’ultimo respiro.    Reza de Wet è un’autrice sudafricana, nata nella cittadina di Senekal (Free State). Ha scritto undici commedie in quattordici anni (quattro in inglese e sette in Afrikaans). In Sud Africa ha vinto più premi letterari e teatrali di qualsiasi altro autore (incluso Athol Fugard). Le produzioni delle sue commedie hanno a loro volta vinto più di quaranta premi teatrali, ma non sono mai state rappresentate in Italia.    Lo spettacolo è inserito all’interno della rassegna EXIT II, che si conferma come una festa del teatro, una via d’uscita dalla crisi culturale, uno spaccato del teatro emerso o emergente, teatro che, con la forza della professionalità, emerge dall’emergenza.    Ingresso 10 euro  – tessera associativa 3 euro (l’ultimo respiro)

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La cura dell’asma allergico

Posted by fidest press agency su venerdì, 4 settembre 2009

Milano 23 settembre presso il Circolo della Stampa conferenza internazionale in cui verranno presentati i sorprendenti risultati della ricerca (condotta dall’Università di Milano, in collaborazione con il Centro Ricerche GUNA) sugli effetti dei bassi dosaggi di interleuchine nella cura dell’asma allergico.  Grazie ai ricercatori italiani si apre una nuova frontiera sulle possibilità di utilizzo clinico di queste molecole, delineando un scenario innovativo nella cura delle malattie allergiche che affliggono ogni anno ampie fasce di cittadini in tutto il mondo: una nuova concreta speranza di cura per i pazienti allergici, che solo in Italia rappresentano il 20% della popolazione.

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Le idee-forza della violenza terroristica

Posted by fidest press agency su martedì, 18 agosto 2009

Esiste una cultura della violenza su basi surrettiziamente ideologiche. Essa si nutre sovente di taluni supporti fideistici di natura laica e religiosa. In questo caso la sua radice ha un background che affonda nella notte dei tempi, in quella delle ribellione di Satana, e, via via, al patto tra Dio ed il popolo eletto, le guerre sante (Islam e il cristianesimo di Guerra), ai Giacobini e la realizzazione del Regno della Virtù, fino alla Chiesa marxista e il ritorno dell’utopia del Giudizio universale e ancora, all’utopia del popolo-eletto tedesco (il sangue e la terra del nazionalsocialismo). In ciascuno di questi schemi ritroviamo, invariabilmente, le varie idee-forza comuni ed eterni. Una volta fissata la “struttura” ideologica del terrorismo il suo manifestarsi si nutre di altri aspetti esteriori quali quelli di una guida, di un messia, di un Partito, di un capo e si esprime  con martiri ed eroi che capeggiano le varie azioni cruente e ne esaltano l’dealismo della lotta armata, ma soprattutto violenta e distruttrice anche a prezzo della propria vita. Chi combatte per questa idea “universale e totalizzante” non è un traditore della patria, intesa come stato-nazione, ma si pone al di sopra di essa ed intende identificarsi nella parte più autentica del messaggio. Come dire: là dov’è la mia idea, quella è la mia patria. Si rovescia, in tal modo, il concetto di Patria quale fucina di ideali e di valori consolidati e tramandati da generazione in generazione. Tutto ciò deve farci meglio intendere il ruolo transnazionale che attraversa il terrorismo e la sua intolleranza ad essere confinato entro ambiti nazionali definiti. Ecco perché può essere stato l’Afganistan un “santuario” ma non una patria del terrorismo, come non lo è l’Irak o la Somalia, o l’Indonesia o qualsivoglia paese del mondo. A questo punto il terrorismo sembra aver raggiunto una maturità diversa dal passato divenendo internazionalista, interclassista e interreligioso per assumere una sua distinta identità e pur fondata su valori condivisibili di lotta contro: la fame nel mondo, i neo colonialismi ed imperialismi, la ricerca di facili arricchimenti. Ma sia chiaro. La risposta terroristica diventa a questo punto un rimedio peggiore del male che si vuole curare.

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