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Quotidiano di informazione – Anno 36 n° 136

Archive for 16 agosto 2017

Giulia Mei in concerto

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

Giulia MeiPalermo giovedì 17 agosto alle 21,30 al Nautoscopio in Piazzetta Capitaneria di Porto a Palermo. Il primo amore artistico non si scorda mai, soprattutto se questo ha ottantotto tasti. La cantautrice Giulia Mei torna al suo vecchio sentimento – in realtà mai abbandonato – chiamato pianoforte e – dopo aver ultimato a Roma le registrazioni del suo prossimo disco, prodotto da Edoardo De Angelis e anticipato dal singolo “Tutta colpa di Vecchioni” – torna a esibirsi in pubblico, affiancata dal chitarrista Vittorio Di Matteo. La Mei canterà i brani dell’album in uscita prossimamente e le tracce di “Pianopiano”, il suo primo ep, pubblicato lo scorso anno.Reduce da importanti concorsi musicali, come Musicultura meie vincitrice del Premio Alberto Cesa, Giulia Mei proporrà in chiave acustica brani scritti e musicati da lei, brani nei quali i temi più svariati dell’esistenza umana vengono affrontati avendo come unico fine e motivazione le emozioni di chi li ascolta. Tante le influenze: da De Andrè a Vecchioni, da Gaber a Cohen, con l’intento di fondere la tradizionale canzone d’autore, con sonorità caratterizzate da elementi proveniente dal pop. Musica, parole ed emozioni, queste sono le tre parole chiave del percorso musicale di Giulia Mei, che sfiorando i tasti del pianoforte setaccia e tocca con la voce il lato più profondo dell’anima di chi ascolta, coinvolgendola in un unico, puro e positivo sentimento d’arte, all’interno di uno spettacolo dove non mancano monologhi e riflessioni di vario genere. (foto. mei)

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In arrivo la “White Night” a Campora San Giovanni e la “Notte Bianca” ad Amantea

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

AmanteaChiara RanieriAmantea. Oggi Campora San Giovanni celebra la sesta edizione della “White Night”, dal tramonto all’alba, con la certosina cura dell’associazione “Vivo Alternativo”. Venerdì 18 agosto ad Amantea si terrà invece la “Notte Bianca”, tanto attesa da coloro che cercano divertimento, risate ed enogastronomia. La “White Night” di Campora San Giovanni inizia alle 21. In piazza San Francesco spettacolo latino con Alex Acosta, orchestra e ballerine cubane e, grazie alla disponibilità del Bar del Corso, diretta su Radio Sound con dj set, vocalist e intrattenimento. In corso Italia, secondo un programma specifico che avvolgerà coloro che prenderanno parte alla serata si alterneranno 5 band musicali, 5 postazioni dj, artisti di strada e i truccatori per i bambini, senza dimenticare lo spettacolo di danza aerea dal titolo “La scatola dei frammenti di cuore”. E ancora: stand di artigianato, mercatino delle pulci e presentazione libri. In via Mercato verrà allestita una mostra fotografica e una zona dedicata ai balli di gruppo e alla musica caraibica con dj set e gruppo di animazione.La “Notte Bianca” di Amantea, come già accaduto negli Concetta VeltriPaolo Meneguzzianni passati, interesserà soprattutto le centralissime via Margherita e corso Vittorio Emanuele, allungandosi fino a piazza Cappuccini. Proprio qui sul grande palco in prima serata si esibirà la cantante calabrese Chiara Ranieri, reduce dal successo di “X-Factor”. Quando la festa raggiungerà il suo apice toccherà a Paolo Meneguzzi riempire la scena, con i suoi maggiori successi. Per lui un ritorno dopo anni passati in giro per il mondo, tra tour e live. «Sono due concerti – spiega l’assessore al Campora San Giovanniturismo Concetta Veltri che si è fortemente prodigata insieme all’esecutivo per dare forma e sostanza alle due iniziative – offerti dalla Regione Calabria, che ringraziamo, su un’istanza presentata dal Comune di Amantea. Oltre alle performance canore non mancheranno le iniziative collaterali che coloreranno la notte rendendola attraente per tutte le età. Da questo punto di vista associazioni e commercianti sono andati oltre il proprio dovere, mettendosi a disposizione della comunità. È mia intenzione, da settembre, costituire l’ente comunale per i grandi eventi al quale affidare la gestione totale delle attività ludiche e ricreative cittadine. Un ente che si preoccuperà di ampliare e migliorare tutte le manifestazioni dell’estate amanteana, collaborando con le organizzazioni che operano sul territorio». (foto: Amantea, concetta veltri, paolo meneguzzi, Chiara Ranieri, campora)

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Il difficile cammino dei cattolici italiani in politica e nel sociale

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

Chiesa_di_S.Maria_della_PaceE’ stata, a ben vedere, sempre un aspetto controverso e solo a tratti stemperato dal rispetto per le gerarchie ecclesiastiche che sul territorio hanno cercato di comporre con discrezione le varie “liti” tra fratelli. Ora che le tensioni si sono attenuate sotto il profilo ideologico, emerge la consapevolezza che si sta sviluppando una nuova forma di laicismo che coinvolge anche i cattolici. In nome di questa aconfessionalità si maturano le convinzioni più trasgressive sotto l’aspetto dell’ortodossia religiosa. Pensiamo al divorzio, ma anche all’aborto, alle ingegnerie genetiche e riproduttive e alle varie disinvolture sessuali sia etero che omo. Certe battaglie di “costume”, tuttavia, vanno viste dalle gerarchie religiose in un modo meno rigido e se vogliamo più riflessivo. Non per questo, di certo, venendo meno ai principi, ma nel trovare almeno in qualche forma di trasgressione una via di compromesso onorevole per entrambe le parti. Pensiamo al divorzio. Quante coppie di cattolici hanno divorziato e sono considerate per la Chiesa in peccato mortale? Forse troppe per non cercare di fare qualcosa che le riporti nella comunità ecclesiale prendendo atto che talune scelte sono state fatte per sanare dolorose situazioni familiari che si trascinavano da tempo. Il dover distinguere tra la “moda” il “capriccio” e la “necessità” è un primo passo per non fare di tutta l’erba un fascio e di ricercare un modo di comprendere il senso proprio di quel grande sentimento che si chiama amore. Sentimento, intendiamoci bene, e non altro.(Riccardo Alfonso direttore del centro studi religiosi e filosofici della Fidest)

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Date a Cesare quel che è di Cesare e a… è ancora valido come precetto cristiano?

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

giulio cesareE’ quanto ci chiediamo non certo per rispolverare antichi steccati integralisti tra l’opera laica e quella religiosa sia pure espressa sul terreno del sociale e del civile. La verità è che ogni azione che una politica compie ha degli indubbi riflessi nel popolo che amministra. E se essi sono di segno negativo e ingenerano proteste e malumori di questo la Chiesa, sia essa cattolica o protestante o di altra professione religiosa, non può non riverberare il disagio avvertito dai propri fedeli. Ci si attende, quindi, una risposta etica di solidarietà per gli indigenti e di protesta nei confronti di coloro che si sono avventurati su un percorso così accidentato e capace di lasciare profonde tracce di malessere collettivo. Governare, è ovvio, non è facile in una società composita dove si intrecciano interessi interclassisti forti e ben organizzati, ma nello stesso tempo è dovere di tutti riconoscere che esiste una parte della società che raccoglie i più deboli ed i più esposti alle crisi occupazionali e di reddito, che i singoli e le famiglie registrano, e che essi vanno più degli altri difesi e sostenuti. E se il richiamo è formulato in nome di una solidarietà cristiana ciò non vuol dire che si debba partire dal fatto che non esiste un’altrettanta forte solidarietà laica. Tutt’altro. E’ che da qualche parte si recita il ruolo delle tre scimmiette: per non udire, per non parlare, per non vedere. E se tutto ciò comporta, e ci riferiamo in primo luogo al Sud del mondo, l’abbandono di intere popolazioni al loro tragico destino di fame, malattie, emigrazioni forzate, sanguinose lotte tribali dobbiamo chiederci se esiste una coscienza laica capace di digerire tutto ciò con indifferenza e distacco o se invece non si meriti un richiamo forte e deciso da chi non rappresenta solo e comunque una autorità religiosa ma quella ancora più incisiva di una coscienza civile verso il rispetto dell’essere umano in toto. Se il capitalismo ci ammannisce questi frutti avvelenati, è bene denunciarlo con forza, combatterlo con il linguaggio più appropriato e chiederci, in definitiva, se non è colpa di una cultura non acquisita o deviata che dobbiamo riportare sulla strada maestra prima che diventi troppo tardi per tutti.(Riccardo Alfonso direttore del centro studi religiosi e filosofici della Fidest)

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Il senso della civiltà cristiana

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

alcide de gasperiAbbiamo vissuto un’esperienza storica particolarmente intensa e soprattutto variegata nel corso di poco più di un secolo tanto che non tutti sono riusciti ad assimilare i cambiamenti che si sono succeduti a ritmo sostenuto. Si pensi all’Italia del 1943-47: paese sociologicamente cattolico; ricca fioritura di opere sociali; ruolo di supplenza della Chiesa nel dissolversi di larga parte delle classi dirigenti coinvolte nella fine catastrofica di una ventennale dittatura, riassunta nel personale prestigio del Papa Pio XII nei giorni, ad esempio, del bombardamento di Roma. A questo vescovo di Roma è poi subentrata, a livello di gerenza politica-istituzionale la personalità di Alcide De Gasperi in grado d’imporre un originalissimo carisma quasi da anti-eroe, interprete della cesura con un passato la cui devastazione appariva a tutti evidente. Da allora ad oggi sono trascorsi tantissimi anni eppure i giovanissimi di allora stentano a riconoscersi con la vita della loro giovinezza. Se potessimo fermare il tempo a quell’epoca e rivederla con il rallentatore avremmo l’impressione di esserci imbattuti in un momento di gran lunga più lontano. Spiegazioni in tal senso non sono mancate. Benedetto Croce a proposito della formazione politica cui egli stesso apparteneva osservava: “nel momento in cui il liberismo trionfava sui totalitarismi e veniva ad essere nei fatti largamente accettato come valore e come prassi politica dalla grande maggioranza delle popolazioni europee, veniva meno la ragione storica di partiti dichiaratamente liberali: di fatto declinati e talvolta scomparsi o ridotti ad un ruolo marginale.” In questo clima dove hanno cambiato pelle i partiti e le ideologia non sarebbe stato credibile negare che anche la Chiesa di Roma ha subito una mutazione e le stesse fermezze e chiusure teologiche di allora hanno subito un grave colpo. Pensiamo ai rapporti con gli ebrei ed i protestanti. Pensiamo alle stesse relazioni con il mondo islamico, induista e buddista. Oggi si può riproporre il dialogo, più volte interrotto o escluso a priori, interreligioso e, quel che più conta, pervenire ad una intesa sui principi e sui valori come quello prioritario della pace e della uguaglianza sociale e civile dei popoli benedetto dalla Fede e dalla Carità nella sua accezione universalistica. (Riccardo Alfonso direttore del centro studi religiosi e filosofici della Fidest)

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Come far crescere un’Europa politica

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

parlamento europeoE’, senza dubbio, una spinta in positivo eppure la sua crescita sembra aver raggiunto in questi giorni un brusco segnale di arresto. Qualcuno già si interroga se non sia una crisi irreversibile dello “Stato moderno”. Crisi derivata dalla identificazione dell’assolutezza dello Stato come moderno Leviatano. E che ha prodotto gli statalismi presenti ancora oggi nelle menti e nei cuori delle formazioni politiche di destra (destra sociale) e di sinistra della geografia politica italiana ed europea (con l’unica differenza tra destra e sinistra. Il nazionalismo come cornice unitaria nella destra, mentre la sinistra è classista ed internazionalista al tempo stesso). Una assolutezza dello Stato, da cui gli statalismi, che ha prodotto di converso la concezione dell’uomo come “unità numerica, intero assoluto che non ha altro rapporto se non con se stesso (J.J. Rousseau). E’ l’individualismo narcisista che ritroviamo nel liberismo darwiniano e nel liberismo esistenziale del radicalismo. Trasversali oggi da destra a sinistra. Come si è visto anche di recente a proposito delle polemiche sulla fecondazione eterologa, sull’omosessualità, sull’eutanasia, sull’assistenza al suicidio, sull’indifferentismo sociale di una certa èlit economico-finanziaria, ecc.
Chi è il leviatano? Dietro il profilo di un paesaggio sereno sulle cui vallette si distendono i villaggi di una terra pacificata e retta dal “buon governo”, si erge il torso di una creatura gigantesca dal capo incoronato, che impugna con la destra la spada e con la sinistra un pastorale, mentre l’immenso corpo figura composto di una miriade di omini con lo sguardo rivolto a lui. E’ il simbolo del leviatano quale è rappresentato nel famoso frontespizio dell’omonima opera di Hobbes, pubblicata nel 1651. Quello che per lo più di duemila anni, attraverso le scritture, la tradizione ebraico-cabalistica è l’immaginario medievale, è stato il drago marino, il serpente dalle mille spire, l’essere mostruoso, l’apocalittica potenza messa da Dio in terra per umiliare gli uomini, divenne con Hobbes, l’emblema ed il nome del Dio mortale, incarnò il corpo dello Stato sovrano, del “contratto” fra gli uomini. La sterminata eredità di pensiero e di idee che la riflessione sul potere e sul governo degli uomini ci ha trasmesso attraverso i tempi, dalla “politikè tèkne” della “polis” greca allo “Stato machiavelliano”, dal sovrano hobbesiano che non è un “defensor pacis” (Marsilio da Padova), ma “creator pacis”, alle concezioni razionalistiche e moderne di Stato e Nazione: questa eredità oggi si dice che è il simbolo del Leviatano, dopo tre secoli in cui ha segnato il destino della modernità, ha oggi irrevocabilmente esaurito la sua efficacia. Con l’avanzare del dominio della tecnica, la mega-macchina statuale appare sempre più. Come aveva intuito Nietzsche, un gelido mostro. Pervicacemente menzognero e totalmente incapace di percepire la vita nel suo divenire. Aveva ragione Nietzsche? Il problema non è lo Stato, la sua assolutizzazione, cioè la sua pretesa di essere fonte suprema del diritto. (Riccardo Alfonso direttore centro studi politici e sociali della Fidest)

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La lezione che ci viene dal XX secolo

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

maritainE’ il secolo che ha visto affermarsi, come portato e degenerazione dell’hegelismo, di destra e di sinistra, e come reazione a gravi squilibri economici e sociali, il fascismo, il nazismo, il comunismo. Anche se occorrerà attendere la fine del “secolo breve” per assistere al definitivo crollo di queste visioni, già nel 1936 Maritain prevedeva che il comunismo, nella sua concreta attuazione in Russia secondo gli schemi della teoria marxista-leninista, sarebbe caduto perché non vivibile, perché contrario alla più profonda natura dell’uomo. Attingendo anche alla tradizione americana e muovendo lungo linee di pensiero che passano attraverso Rosmini e Newman, e in Italia attraverso Toniolo e Sturzo, egli dimostrò il fondamentale accordo tra democrazia, libertà e cristianesimo; riconducendo la sovranità dello Stato al popolo. E’ senza dubbio un passaggio, ma temiamo non si possa considerare l’ultimo dato che la democrazia, come la stiamo vivendo, lascia ampi margini di insoddisfazione. Per certi versi la democrazia è diventata un alibi per favorire gli abusi in nome del garantismo. In questo contesto ci avviciniamo di più al concetto di “società aperta” vagheggiata da Popper che si fonda sull’idea della fallibilità umana, sulla necessità della tolleranza e dell’educazione degli individui. In questa concezione, il mercato è più efficiente e produttivo di un sistema di pianificazione centralizzata, che fatalmente conduce al totalitarismo. Per centi versi all’opposto incontriamo Hayek secondo cui la dimensione economica prevale su quella filosofica e spirituale. Nel suo sistema di pensiero, infatti, la libertà è importante, non come valore in sé ma in primo luogo per le sue conseguenze economiche. Per Sen, premio Nobel per l’economia, l’individuo tende alla eudaimonia. Se ne deduce che l’economia è parte integrante della vita di una comunità; l’elevata disponibilità di beni materiali e soprattutto una loro equa distribuzione sono una componente importante del benessere della società. Non si tratta di contrapporre l’avere all’essere, ma in un contesto concreto riflettere in che misura l’avere può contribuire all’essere. La partecipazione alla vita civile si sostanzia soprattutto nell’attività lavorativa. Dobbiamo ora chiederci se la “formula capitalistica” non diventi un’altra “non vivibilità” come lo è stato il marxismo-leninismo e se dobbiamo attenderci un altro collasso mentre ancora stiamo ruotando intorno ad una idea ancora vaga e poco delineata di una società diversa e più adatta ad essere indossata dalla società del futuro. (Riccardo Alfonso direttore centro studi politici e sociali della Fidest)

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I giovani nel confronto con la storia ed il loro futuro

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

emigrazione-giovani-italiani-esteroSe andiamo a ritroso nel passato, o se ci avventuriamo nel futuro, sull’onda delle simulazioni proposte dagli scrittori fantascientifici o anche e solo dagli esperti analisti che partono da eventi presenti e vi costruiscono possibili scenari tra dieci ed anche 20-30 anni a venire, ci accorgiamo che non sempre esiste una novità, tanto sconvolgente, da farci cambiare totalmente le attuali abitudini di vita e di relazione tra popoli ed etnie. Il tema ricorrente sembra essere quello della mancata valutazione dei problemi dello sviluppo delle aree deboli ed in ritardo e che hanno provocato e continuano a provocare oggi, come continueranno a farlo in futuro, enormi squilibri di crescita che attraversano le economie e le realtà nazionali e continentali. Questo perché le logiche che dominano le politiche economiche secondo la dottrina capitalistica, che va per la maggiore, non sembrano voler cedere il passo a quelle più attente a combattere i divari, che, una volta storicamente determinatisi, sono difficili da contrastare e ridurre, se non con impegni assai cospicui e duraturi di risorse investibili. Questo volersi dare carico di una redistribuzione delle opportunità terrestri secondo criteri di equanimità e di giustizia a prescindere dai profitti che verrebbero a mancare, non sembra una scelta percorribile né oggi né domani come non lo è stato in passato. In questa misura si rende impraticabile ora, e sempre, un pareggiamento tendenziale delle convenienze poiché non è possibile individuarla tra chi produce beni e da essi vuol trarne, vendendoli a terzi, il massimo profitto. E può ottenerlo solo da chi ha un reddito adeguato per acquistare tali prodotti. Così si lasciano morire milioni di malati di aids del terzo mondo perché non hanno i soldi per procurarsi le medicine, così si lasciano morire di sete e di fame quelle popolazioni che non hanno i mezzi per sviluppare una produzione agricola adeguata, e via di questo passo. Non solo. Nelle aree del cosiddetto “benessere” restano delle sacche di povertà e di emarginazione dove le risorse destinate al riequilibrio restano modeste e finiscono con il vanificare di fatto ogni spinta verso la crescita o, per lo meno, la riduzione del divario tra le regioni più ricche e quelle meno dotate. Mancano la buona volontà, il coraggio politico ed il senso di responsabilità di quanti dovrebbero sentirsi in prima fila a sostenere una visione del mondo fondata sulla pace e sull’unificazione dei rispettivi destini. (Riccardo Alfonso direttore centro studi politici e sociali della Fidest)

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L’Africa ed i suoi drammi esistenziali

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

Displaced People At Dadaab Refugee Camp As Severe Drought Continues To Ravage East AfricaE’ un continente troppo grande per poterlo descrivere. Forse così grande e complesso, per molti lontano, scriveva Sara Melchiori su Avvenire anni fa, che risulta più facile tacere o ricordarsene solo di fronte all’emergenza, all’esplodere di nuovi drammi, di nuovi focolai di guerra, in breve dimenticati.» E’ questa l’Africa. Una realtà che ha come minimo denominatore la povertà e che è alimentata dai disastri ambientali e dal retaggio dei vari colonialismi che l’hanno predata in largo e in lungo come tante cavallette che dove passano lasciano solo miserie e distruzioni. Oggi i paesi africani debitori sono tanti per nulla aver saputo fare per la costruzione di una società civile aperta alla democrazia e alla civiltà. Oggi i 715 milioni di abitanti risultano essere i più indebitati del mondo. Sono riusciti a trovare soldi solo per acquistare armi e scannarsi a vicenda. E’ una soglia della povertà che spaventa: nell’Africa subsahariana il 75% della popolazione vive di sotto la soglia della povertà, l’80% non ha accesso all’energia elettrica, il 75% non dispone di adeguate strutture igieniche, ogni anno circa tre milioni di africani muoiono di Aids ed oltre 23 milioni ne restano contagiati. Per non parlare di altri mali come la malaria, la tubercolosi, la diarrea, il morbillo, le infezioni respiratorie che in Africa diventano facilmente malattie mortali in specie per i bambini fino ai 5 anni. Basterebbe una sola cifra in comparazione per capire il dramma di questo continente: la spesa sanitaria pro-capite mediamente in Africa si attesta sui 10-15 dollari su base annua contro i 1.855 dell’Italia ed i 4.187 degli U.S.A. Di questa spesa sanitaria in Africa il 60-65% è in carico al privato. (Riccardo Alfonso direttore centro studi politici e sociali della Fidest)

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Una civiltà che guarda avanti può ancora convivere con i suoi simulacri sociali?

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

biotecnologiaE’ quanto ci chiediamo se osserviamo il dibattito che da anni si è innescato, nello specifico, in Italia ma che non è, tutto sommato, diverso da quello degli altri Paesi del mondo, riguardo alla questione del suo sistema previdenziale. Consideriamo tutto ciò un sempre maggiore esercizio accademico per una ricerca di una soluzione secondo taluni schemi interpretativi tradizionali, mentre la risposta la dovremmo trovare in modo diverso. Lo impongono, se vogliamo, due aspetti della nostra civiltà odierna: il prepotente sviluppo delle tecnologie e le attese di vita che si prolungano nel tempo regalandoci un essere umano più vecchio ed anche più in buona salute. Cosa significa tutto ciò? Tanto per cominciare che il dibattito sui limiti d’età per andare in pensione sta diventando sterile a tutti gli effetti. L’orologio anagrafico sta diventando l’elemento più relativo di questo mondo. Come pretendiamo di assegnare ad un sessantenne la patente di pensionato, relegandolo all’inattività lavorativa se ha di fronte, mediamente, la possibilità di sviluppare altri 15 ed anche venti anni di attività occupazionale, sia pure con certi limiti? Di certo non potrà giocare da professionista a calcio e nemmeno a calcetto, ma svolgere un lavoro manuale leggero, o una attività intellettuale di medio impegno, è nelle sue piene capacità. Ciò significa che il lavoro va ricercato per “fasce di compatibilità” anagrafica e non limitato ope legis ad una certa scadenza. Ed allora possiamo dire che non esiste età pensionabile fissa ma dovrebbe essere, invece, libera ed in funzione alle proprie capacità fisiche ed intellettuali. Prendiamo ad esempio i molti lavori sedentari esistenti da quelli dell’usciere al portiere di stabili, dal minutante negli uffici al sorvegliante negli stabilimenti a minor rischio, e via di questo passo. Se solo facessimo un piccolo sforzo e classificassimo tutti lavori esistenti in tante fasce preferenziali per età e li indicassimo ai corrispondenti lavoratori come opzioni future per il loro avvenire lavorativo e corroborassimo il tutto con una formazione professionale adeguata e posta anzitempo la scadenza prefissata per l’eventuale passaggio, noi saremmo in grado di favorire con efficacia la costituzione di una società più armonicamente equilibrata nel suo essere e rappresentarsi. Alla fine giudicheremmo persino balzana quell’idea di far diventare necessariamente vecchio da pensione un sessantenne o anche un settantenne. (Riccardo Alfonso direttore centro studi politici e sociali della Fidest)

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The Sociology of Islam: Knowledge, Power, Civility

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

the sociology of islamDi Armando Salvatore Wiley Blackwell, Chichester (UK), 2016 traduzione e scritto di Michele Brignone Poco noto al di fuori degli ambienti accademici, probabilmente anche a causa della complessità teorica dei suoi scritti, Armando Salvatore, professore di Global Religious Studies alla McGill University di Montréal, è uno dei più interessanti studiosi contemporanei di Islam, da anni impegnato in un percorso di ricerca che punta a comprendere questa grande religione sottraendola alla lente deformante dell’orientalismo, ma senza farsi intrappolare nei vicoli ciechi degli studi post-coloniali. Anche il suo ultimo lavoro, The Sociology of Islam. Knowledge, Power and Civility, primo volume di un progetto di trilogia, va in questa direzione. Il libro indaga il modo in cui nell’Islam il rapporto tra la conoscenza e il potere ha dato forma a modelli di civiltà (civility), intesa come l’insieme di norme, costumi, comportamenti e modi di auto-disciplina che, in maniera quasi invisibile, garantiscono il legame sociale impedendo l’esplosione di conflitti. In questo senso la civiltà è «essenziale per il tessuto sociale tanto quanto la gravità (considerata in fisica la più debole delle forze fondamentali) lo è per il mondo fisico» (p. 25). Muovendo da questa angolatura, Salvatore intende proporre un concetto di civiltà più trasversale di quello contenuto nell’idea di “società civile”, troppo legato a “traiettorie egemoniche occidentali” e in particolare all’illuminismo scozzese, il quale postula, infondatamente secondo Salvatore, un legame sociale basato sulla fiducia spontanea tra individui che perseguono il proprio interesse. Allo stesso tempo la nozione di civiltà come civility permette di evitare le connotazioni ideologiche contenute nella categoria di civiltà come civilization, un termine che, oltre a rievocare il passato coloniale, nelle scienze sociali finisce per istituire una perfetta sovrapposizione tra religione e cultura, fino alla sua cristallizzazione nel “mito” (così lo chiama Salvatore), dello “scontro di civiltà”.Per superare queste distorsioni, Salvatore si affida da un lato al filosofo italiano Giambattista Vico, e dall’altra allo storico americano dell’Islam Marshall Hodgson. Il primo, contemporaneo degli illuministi scozzesi, fornisce una spiegazione della coesione sociale alternativa alla visione “commerciale” fondata sul contratto. Il secondo concepisce l’Islam «come un’ecumene che attraversa più civiltà (transcivilizational) più che come una civiltà monolitica autosufficiente» (p. 31). Inoltre Hodgson, rovesciando un paradigma consolidato dell’orientalismo, non situa l’apogeo dell’Islam nell’epoca d’oro del califfato abbaside, ma in quelli che lui chiama i “periodi di mezzo”, cioè i secoli successivi alla fine del califfato, in cui l’Islam conobbe la sua massima espansione, facendo leva in particolare sul connubio tra reti commerciali e confraternite sufi. Nel momento in cui perde la sua solidità istituzionale, l’Islam mostra la sua capacità di adattarsi ai contesti più disparati, dando vita a un ethos cosmopolita e a modelli di civiltà fondati da un lato sulla normatività della sharī‘a e dall’altra dalla cultura “laica” dell’adab, un termine che indica al contempo la letteratura di corte e le buone maniere. Secondo Salvatore dunque, contrariamente a quanto afferma il discorso orientalista, non è vero che l’Islam sia incapace di un rinnovamento endogeno. È vero piuttosto che il dominio coloniale lo ha costretto in una griglia, quella vestfaliana, che ne ha soffocato le potenzialità: «Mentre la civiltà (civility) precoloniale era fondata su un fragile equilibrio di connettività sociale, autonomia individuale e distinzione culturale tra strati sociali, la cornice dello Stato-nazione che fa da matrice alla moderna società civile non è stata capace di salvaguardare questo equilibrio nel lungo periodo e sul piano globale. Il difetto di universalità dell’egemonia europea è evidenziato proprio dalla ricorrenza di questi squilibri» (p. 253). L’analisi di Salvatore sembra minimizzare i problemi creati dall’incontro tra Islam e modernità. Ma la sua riflessione pone una questione decisiva, che tra l’altro va ben al di là dei confini della ricerca accademica: il mondo in cui viviamo è globale, ma continua a essere incapace di universalità. [L’articolo è contenuto in Oasis n. 25. Per leggere interamente i contenuti della rivista acquista una copia o abbonati http://www.oasiscenter.eu] (photo: The sociology of islam)

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Caliphate: The History of an Idea

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

caliphateDi Hugh Kennedy Basic Books, New York 2016 traduzione e scritto di Chiara Pellegrino. Se c’è un’idea politica forte, che da quattordici secoli domina la storia islamica, è proprio quella del califfato. In suo nome si è combattuto e ucciso, come testimoniano la vicenda dell’assassinio del terzo califfo ‘Uthmān, l’uccisione di Husayn e le violenze commesse oggi dallo Stato Islamico; in suo nome sono stati versati fiumi d’inchiostro – dai trattati di Māwardī (m. 1058), Juwaynī (m. 1085) e Ghazālī (m. 1111), primi teorici di questa nozione, alle dissertazioni dei contemporanei. Ci sono stati momenti nella storia in cui questa idea di governo ha inciso profondamente nell’organizzazione della comunità musulmana, e momenti in cui essa è risultata quasi ininfluente. Nel Novecento, dopo la dissoluzione del califfato ottomano (1924), con la nascita di movimenti islamisti e jihadisti, l’idea è ritornata in primo piano.
Caliphate. The History of an Idea di Hugh Kennedy, professore di arabo alla School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra, esamina l’evoluzione storica di questa nozione e il suo uso e abuso nei secoli. Partendo dai primi quattro califfi “ben guidati”, Kennedy ripercorre i momenti salienti del califfato omayyade e abbaside, dedica un capitolo ai califfi fatimidi in Tunisia ed Egitto, esamina il sultanato ottomano e conclude con una riflessione sull’appropriazione indebita di questa nozione da parte dello Stato islamico.L’obbiettivo del volume è sradicare l’idea, piuttosto diffusa, che il califfato sia un’istituzione dai fondamenti evidenti, rimasta immutata nei secoli, mettendo in luce come invece questa forma di governo abbia subito più volte aggiustamenti dettati dalle circostanze storiche. Basti pensare al dibattito seguito alla morte di Muhammad in merito a chi dovesse dirigere la umma e di quali prerogative dovesse essere investito. Per alcuni, il califfo doveva appartenere semplicemente alla tribù dei Quraysh (perciò poteva essere anche un omayyade), per altri doveva essere un membro dei Banū Hāshim, il clan del Profeta, mentre altri ancora, i kharijiti, ritenevano che tutti i musulmani maschi fossero potenziali candidati. Vi era poi chi contemplava l’ereditarietà del califfato e chi invece ammetteva la designazione diretta (nass) del successore. Tutte queste opzioni, spiega Kennedy, aprivano a una serie di altre considerazioni. La successione ereditaria poneva il problema di stabilire quale ramo della famiglia di Muhammad potesse accedere alla carica e la questione del diritto di primogenitura e implicava potenzialmente l’infallibilità del califfo che, in quanto tale, poteva interpretare o addirittura modificare il Corano e la Sunna (visione sciita). Se invece il califfo era nominato dagli uomini, non poteva essere considerato infallibile, ed è la ragione per cui, in ambito sunnita, l’interpretazione del Corano e della sharī‘a sarebbe diventata, dal X secolo in avanti, una prerogativa degli ulema e dei giuristi anziché del califfo.Soprattutto nei primi quattro secoli non si seguì una prassi precisa e univoca: il primo califfo Abū Bakr non faceva parte della famiglia di Muhammad e fu eletto da un gruppo ristretto di musulmani da cui ‘Alī era rimasto escluso; ‘Umar, suo successore, fu nominato personalmente da Abū Bakr, mentre ‘Uthmān fu eletto da un consiglio voluto da ‘Umar e formato da sei uomini tra cui ‘Alī. Quest’ultimo invece divenne quarto califfo senza ricevere un’investitura formale e dovette conquistare la carica sul campo nella celebre battaglia del Cammello. Ciò conferma – conclude l’autore – che i tentativi odierni di ripristinare il califfato rifacendosi alla tradizione sono arbitrari perché la storia islamica ha prodotto califfati anche molto diversi tra loro, non riducibili a un modello unico.Pensato per un lettore non specialista, il libro di Kennedy è uno strumento imprescindibile per chi voglia conoscere l’evoluzione storica di questa istituzione, cogliere il peso che essa ha avuto nella formazione della cultura politica islamica e le ripercussioni nel presente. L’istituzione califfale, infatti, non può essere compresa a prescindere dal contesto storico in cui è stato plasmata.
[L’articolo è contenuto in Oasis n. 25. Per leggere interamente i contenuti della rivista acquista una copia o abbonati http://www.oasiscenter.eu] (foto: caliphate)

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Le tracce: riflessioni flash sui temi di attualità

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

pianeta terraIl mondo com’è! Se paragoniamo l’umanità tutta intera con un villaggio di 100 abitanti e se teniamo conto di tutti i popoli esistenti, questo villaggio virtuale sarebbe composto da: 57 asiatici, 21 europei, 14 americani (nord e sud), 8 africani, 52 sarebbero donne, 48 uomini, 70 non sarebbero bianchi, 30 bianchi, 70 non sarebbero cristiani, 30 cristiani, 89 sarebbero eterosessuali, 11 omosessuali, 6 abitanti possederebbero il 59 % della ricchezza totale, 6 verrebbero dalle USA, 80 non avrebbero l”abitazione, 70 sarebbero analfabeti, 50 sarebbero dipendenti di qualcuno, 1 morirebbe, 2 nascerebbero, 1 avrebbe un PC, 1 sarebbe diplomato. Se vediamo il mondo in questo modo, diventa chiaro che la comprensione, l’accettazione e l’istruzione sono necessari. Se ti sei svegliato questa mattina e non sei malato, allora sei più felice di 1 milione di persone che stanno per morire nei prossimi giorni. Se non hai mai vissuto la guerra, la solitudine, la sofferenza dei feriti o la fame, allora tu sei più felice di 500 milioni di persone al mondo. Se puoi andare in chiesa, senza paura delle minacce, dell’arresto e della morte, allora tu sei più felice di 3 miliardi di persone al mondo. Se si trova da mangiare nel tuo frigorifero, sei vestito, hai un tetto e un letto, allora tu sei più ricco di 75% degli abitanti di questo mondo. Se hai un conto in banca, un po’ di soldi nel tuo portafoglio o un po’ di monete in una cassettina, allora tu fai parte dell’8% delle persone più ricche del mondo. Quale fortuna per te!

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Pluralismo sociale e testimonianze missionarie

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

Cattedrale3Sulle motivazioni profonde e sui requisiti essenziali della testimonianza missionaria a cui la Chiesa è chiamata occorre riflettere anche alla luce del pluralismo sociale e culturale della nostra società. Un punto essenziale è rendere di nuovo presente e operante nel popolo cristiano la consapevolezza diffusa che Dio ha preso l’iniziativa di rivelarsi a noi, nella nostra storia, la quale diventa per ciò stesso storia di salvezza. Di tutta questa rivelazione salvifica, nella quale Dio, per amore gratuito, ci fa conoscere se stesso e il mistero della sua volontà – cioè il suo concreto atteggiamento verso di noi – e ci fa entrare in comunione con Lui, Gesù Cristo «è insieme il mediatore e la pienezza» (Dei Verbum, n. 2; cfr n. 4). È questo il motivo fondamentale per il quale, pur essendo pienamente aperti e cordialmente partecipi agli sviluppi della cultura e della scienza, non possiamo adattarci a una mentalità scientista e nello stesso agnostica e relativista. Parimenti insoddisfacenti sono però alcune tendenze che hanno le loro matrici nelle grandi religioni orientali, ma anche – per quanto riguarda il nostro passato – in larghi strati del pensiero filosofico e religioso ellenistico, e che oggi sembrano di nuovo diffondersi in Occidente, sulla base di una certa sintonia con il relativismo e l’agnosticismo presenti nella nostra cultura. Queste tendenze sottolineano la presenza di Dio, o più esattamente del divino, al fondo di ogni realtà e insistono però sull’impossibilità, per la nostra mente limitata, di averne alcuna reale conoscenza. Il divino così inteso sarebbe alla fine impersonale, identificandosi con la dimensione più profonda e misteriosa dell’universo. Al loro confronto il cristianesimo può mantenere intatta anche oggi quella rivendicazione di verità – di una verità superiore alla nostra ragione, ma al contempo ad essa profondamente corrispondente – che era stata un suo fondamentale punto di forza nel confronto con il mondo filosofico e religioso dell’Antichità. Anche oggi, infatti, l’annuncio che il Verbo di Dio, la Sapienza creatrice, è all’origine di tutta la realtà e di ogni suo mutamento o evoluzione – compreso l’emergere di quella realtà unica che è l’uomo – conserva pienamente e vede semmai accresciuta la sua plausibilità, dato che l’avanzare delle nostre conoscenze richiama sempre più l’attenzione sull’intelligibilità dell’universo e della sua stessa evoluzione.

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La questione garibaldina e le elezioni regionali siciliane tra presente e passato

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

garibaldi a palermoLe prossime elezioni amministrative regionali in Sicilia mi offrono l’occasione di riprendere una lettera che Fabio Cannizzaro Vice Segretario Frunti Nazziunali Sicilianu – Sicilia Ihdipinnenti mi scrisse per conoscenza e che aveva indirizzata in primis al Direttore pro tempore de “La Repubblica” Ezio Mauro sulla questione garibaldina e il dibattito mediatico che seguì. “…Il sicilianismo – scriveva – è inteso, percepito e veicolato come una sorta di sintesi di tutti i mali siciliani. Direi che questa è un’ingenerosa generalizzazione che però testimonia di un clima d’isteria che pervade ampi settori dell’intellighenzia e della politica centralista in Sicilia. Da molto, troppo tempo questi settori si sono adattati ad un’ampia, vissuta autoreferenzialità che li porta a pensare e vedere la realtà siciliana esclusivamente con le loro “lenti colorate”. Diciamo subito che una certa predisposizione alla “partigianeria” emerge già gridata negli occhielli e nei titoli dei tre “pezzi”. Tuttavia e malgrado questa propensione, dal mio angolo visuale, gli articoli vanno in ogni caso letti perché sono testimonianza di un atteggiamento, di una “forma mentis” molto diffusa nell’intellighenzia engagé e di potere, centralista e antisiciliana. E sì perché va detto che i “fatti di Capo d’Orlando” hanno in ogni modo, appunto, il merito di avere squarciato un velo di silenzio, voluto ed imposto, sulla storia, la memoria e l’identità della Sicilia e del suo Popolo. Certo un simile repentino, inatteso clamore ha trovato impreparati proprio quelli che per tradizione, abitudine, pigrizia o rachitismo e interesse non vogliono neppure pensare che la storia ufficiale della Sicilia, come oggi è veicolata, possa essere falsa, apocrifa e negazionista. Ed è proprio quello che è successo quando il Sindaco Sindoni ha reintitolato la piazza della stazione. I “chierici”, gli intellettuali engagé sicuri nelle loro “ortodossie”, ereditate e mai veramente meditate, si sono visti travolgere dal consenso che l’opinione pubblica accredita concretamente alla posizione sostenuta dal Sindaco orlandino. Quando poi un giornalista siciliano, per nulla sicilianista ma attento alle notizie, su un noto quotidiano, ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica italiana la querelle sino allora solo paladina, quei settori, ideologizzati e pro-garibaldini, si sono visti scoperti e impreparati. La reazione è stata da manuale: gridata, ostentata e autoreferenziale. Quando poi, con un effetto domino, l’articolo del noto giornale ha scatenato la curiosità delle maggiori TV e della stampa estera, costoro si sono sentiti in dovere di difendere la “bandiera”, e specie nel mondo politico, di dire la loro e prendere posizione sulla questione. E così tutto rischia di ridursi ad uno schierarsi di mero stampo calcistico. Pro e Contro sono divenuti i punti di riferimento davvero sconfortanti della questione. Ed è in quest’ottica “tradizionale” che Sindoni ha raccolto la solidarietà del Presidente della Regione o anche quella del leghista Borghezio, mentre, va detto, molti altri si sono schierati dalla parte dei “garibaldini” (Idv, PS ecc..). Più però i settori politici, burocratici e culturali di potere manifestano la loro devozione filo-garibaldina e più l’opinione pubblica siciliana (e no) mostra di comprendere veramente il senso delle cose e soprattutto delle forze in campo. E così si giunge ai tre interventi de “la Repubblica” edizione di Palermo. In quello a firma di Pippo Russo va apprezzata, lo scrivo con sincerità, la sua capacità di scrivere sul cosiddetto “revisionismo” storico siciliano, come viene definito, senza entrare Amos Cassioli, Ritratto di Giuseppe Garibaldineppure minimamente nel merito dei fatti, storici e no, che hanno ispirato questa polemica. Russo non cita un solo evento a difesa e testimonianza dell’idea ufficiale ed ufficializzata di Risorgimento che vuole conservare, quasi “imbalsamare” ad infinitum. Alla luce di ciò temo di cominciare a nutrire più di un dubbio sulla Sua volontà di verità storica e sulla volontà di Questo di giungere ad essa attraverso fonti, atti e fatti concreti. Ciò su cui invece non ho alcun dubbio è la sua doviziosa capacità d’essere maestro in un sociologismo manierato quanto antisiciliano. Mi compiaccio con Pippo Russo, che non ho l’onore di conoscere, che Egli trovi inoltre tempo da dedicare anche a riflessioni linguistiche e/o meta-ortografiche, al punto che se queste sue note avranno successiva fortuna Egli diverrà, senza difficoltà, il post-Pitrè del XXI° secolo globalizzato. Tuttavia non possiamo non dire che ci fa onore che il senso completo di un siffatto, paradigmatico ragionamento, così poco moderno e progressista, prenda la stura dall’analisi di una sigla: SICILIA INDIPINNENTI che con tutta evidenza coincide con quella dell’organizzazione politica in cui mi onoro di militare: ‘u FRUNTI NAZZIUNALI SICILIANU – SICILIA INDIPINNENTI. E’ arguto, riconosciamolo, il tentativo operato da Russo di insinuare (cosa ben più facile e sinuosa che affermare) che esisterebbero una serie di lingue e identità quante sarebbero le provincialità e i comprensori siciliani. Tuttavia Russo non è né originale né il primo a tentare questa un simile approccio disarticolante. Dobbiamo dire che questo tipo di “reazione” è una prassi nota tipica di tutti i colonialismi e che, in concreto, poi si riduce a poco più di una boutade intellettualistica. Ci spiace doverle ricordare a Russo che i Siciliani, al di là e oltre le ovvie, naturali varianti ortografiche territoriali, intendo e comprendono comunque la lingua siciliana e si comprendono tra loro in tutta la Sicilia. I Siciliani, infatti, ben sanno d’essere parte di un Popolo, di una Nazione europea e mediterranea. Una Nazione, appunto, antica, riconosciuta che ha una peculiare tradizione culturale, linguistica conclamata anche se diversificata. Sarebbe bene che Russo se ne facesse una ragione e riflettesse su ciò. Passerò ora a proporre alcune veloci chiose su quanto ha scritto Umberto Santino. L’articolo di Santino offre, infatti, interessanti spunti di critica e confronto. Come, ad esempio, quando l’animatore del Centro Impastato scrive facendoci sapere che Egli ha le idee chiare su cosa vuole il sicilianismo. Io trasalgo e tendo bene le orecchie. Io che, infatti, in quest’area milito da quasi un quarto di secolo, ancora non ho ancora acquisito la sua sicurezza e sicumera su quello che il Sicilianismo sicilia nazionemonoliticamente vorrebbe. Cosa che invece Santino ostenta di ben comprendere e sapere. Santino afferma cose forse verosimili ma non certo vere. Se, Egli, davvero ci considera tutti “automi “al servizio della strategia lombardiana, non solo sbaglia manifestamente ma offende prima di tutto la sua stessa credibilità di studioso, politologo ed intellettuale. Chiunque abbia frequentato o realmente studiato l’area sicilianista sa che è più onesto dire che, oggi, il sicilianismo, quest’area politico-culturale è divisa, traversata appunto da tradizioni, scelte e forme organizzative diverse e spesso tra loro antitetiche. Il sicilianismo può essere dunque oggi rappresentato, più e meglio, come una nebulosa. Non so cosa le altre organizzazioni vogliano, ricerchino io qui mi limiterò a parlare solo a nome del mio partito: ‘u Frunti Nazziunali Sicilianu – Sicilia Indipinnenti e dell’area indipendentista democratica. Noi esistiamo dal 1964 (ben prima della lega, del Leghismo) siamo democratici, pacifici, schiettamente apertamente antimafiosi e socialmente progressisti quanto apertamente indipendentisti. Io quindi credendo nella buona fede di Santino lo invito ad andare oltre la rituale ripetizione di vecchi pregiudizi e solfe sul “separatismo” agrario (ma potevano i censiti 400.000 iscritti separatisti degli anni ’40 del secolo scorso essere tutti agrari?) e filo mafioso e a pensare operosamente a studiare la realtà ideale e politica dell’Indipendentismo Siciliano di allora e di oggi senza preconcetti. Per chiarire ogni possibile equivoco sappia Santino che Noi oggi siamo tra i pochi che hanno ancora la forza, la volontà e il coraggio di dire che la lotta alla mafia è precondizione per qualsivoglia azione politica in Sicilia e per la Sicilia. A ciò si aggiunga anche che Noi siamo tra i pochissimi partiti a non avere mai avuto cointeressenze né con la mafia né con qualsivoglia forma di malaffare. Quanto poi a quella che Santino avanza retoricamente come “una modesta proposta”, anzi una serie di proposte e cioè quelle: di intervenire sul monumento dedicato a Palermo, a Francesco Crispi, di cancellare su di esso la scritta “la monarchia ci unisce”, di arretrarlo e di affiancargli un qualcosa che ricordi i massacri dei Fasci Siciliani dei Lavoratori. Sorprenderemo forse Santino ma Noi siamo perfettamente d’accordo. Vorremmo però che Tutti e quindi anche Santino avessero la costanza e la coerenza di aggiungere che quei Siciliani, quelle donne e quegli uomini, erano socialisti e sicilianisti. Se non vuole credere a musica-popolare-sicilianaNoi l’informato Santino si ricordi degli studi di Massimo Gangi (che non era un sicilianista) e della “riscoperta” compiuta da questo del famoso oramai “Memoriale Codronchi” in cui i Fasci Siciliani chiedevano Autonomia per la Sicilia e rispetto della Sicilianità. E’ questa una parte della storia siciliana che c’è stata anch’essa sottratta quando il socialismo marxista dogmatico continentale dei vari Filippo Turati, Ivanoe Bonomi e Camillo Prampolini (quello che divideva gli italiani, bontà sua, in sudici e nordici) imposero un’osservanza risorgimentale e nordista (oggi diremmo padana) al già sviluppato socialismo siciliano. Di tutto ciò e di molto altro siamo disposti sempre e comunque a parlare, peccato però che molti sfuggano sistematicamente il confronto preferendo i soliloqui. Infine vorrei chiosare l’ultimo periodo dell’articolo di Santino che mi ha lasciato perplesso non poco. Egli testualmente scrive: “Questi segni gioverebbero a ricordare eventi dimenticati e probabilmente invoglierebbero a conoscere un po’ meglio la storia della Sicilia, senza sicilianismo”. Non ci può essere, non ci potrà mai essere una storia della Sicilia, Caro Santino, senza sicilianismi. Se ne faccia una ragione, rifletta sul fatto che scrivere ciò, di fatto, equivale ad affermare che può esistere una storia della Sicilia senza i Siciliani. E’ evidente qui, tornano in mente, esempi famosi di quando con certi giochi linguistici taluni scrivevano e scrivono di essere “antisionisti” ma poi intendo dire “antisemiti” nascondendosi poco nobilmente dietro le parole. Qui si tratta esattamente della stessa cosa, dietro vi è la stessa identica logica. Se ne faccia una ragione Santino, il Sicilianismo è insito nella storia Siciliana ed da essa inestricabile. Ciò che invece non è connaturato è lo stato di sudditanza politica e culturale della Sicilia dai poteri politico –economici forti e dalla mafia e del malaffare. Non è connaturato neppure quel certo vezzo neo-lombrosiano che vorrebbe la Sicilia razzisticamente quasi irredimibile. Sappia comunque Santino che essere Siciliani non è un destino né una condanna, quindi se vuole si “dimetta” ma non chieda agli altri di rinunciare al proprio Io collettivo. Quanto poi all’intervento di Giuseppe Casarrubea vorrei stigmatizzare l’affermazione avanzata da Questo e del resto presente anche in altre parti di questa doppia pagina, secondo cui Sindoni altro non sarebbe altro che un esecutore, o come Casarrubea mette nero su bianco un “capomastro” del “Deus ex Machina “, dell’ineffabile Raffaele Lombardo da Grammichele. Ad oggi nulla del genere mi risulta. Credo, in attesa di essere smentito, che si tratti di una facile generalizzazione che finisce per ridurre i termini della questione ad mero problema di polemica politica. In realtà non è così. Qui in ballo c’è, caro Casarrubea, molto di più di quanto Lei vede o voglia ammettere. Ho però apprezzato il suo distinguo quando Lei afferma di non potere mettere le mani sul fuoco sull’onorabilità della tradizione agiografica che si richiama a Garibaldi Giuseppe da Nizza (oggi Nice in Francia). Vede caro prof. Casarrubea, Ella non fa altro che gettare in sociologia, in chiave di liberazione sociale ciò che invece è logicamente, strettamente connesso alla stessa ragion d’essere della “questione garibaldina” e più in generale della riflessione storiografica sulla Sicilia. Per restare sui termini della questione giornale di siciliaoggetto dei fatti di Capo d’Orlando appare evidente che in Sicilia non si sviluppò lo sforzo volontaristico di un singolo uomo geniale e volitivo come si è troppo a lungo sostenuto quanto più, qui, si dipanò l’azione sciente e coordinata di una superpotenza (l’Inghilterra del 1860) che adoperò uno stato fantoccio (il Regno del Piemonte) per mantenere il suo controllo, oggi diremmo, geopolitico sul Mediterraneo. Professore Casarrubea, a mio avviso, Lei liquida troppo velocemente, troppo scontatamente, i tanti, troppi difetti che non può anche volendo negare all’azione diciamo non coerente del Garibaldi e dei suoi sodali. Certo Ella non può negare l’eccidio di Bronte, Ella non può negare il fatto, concreto testimoniato e testimoniabile, dell’essere i Garibaldini non una forza di liberazione e di emancipazione sociale ma un mal dissimulato strumento di colonialismo politico e di una collegata sopraffazione sociale. Ella inoltre non può neppure negare che la scuola italiana ha sempre evitato accuratamente di parlare di ciò. Si è sempre taciuto poi glissato e si preferisce ancora oggi far silenzio su questi temi. I cattivi maestri certo sono colpevoli ma la loro azione non è stato un atto di pervertimento personale o di ricercato volontarismo di singoli o gruppi ma una sciente, dimostrata volontà sostenuta e perorata, fino a qualche decennio fa, da un sistema culturale ufficiale monocratico e monoculturale. Prof. Casarrubea, mi spiace non poter poi concordare con Lei sul fatto che esisterebbe un Garibaldi tutto da scoprire. Se ne faccia una ragione professore, di Garibaldi finalmente si sono scoperte tutte le malefatte, tutte le ingenerosità e le tante viltà e piccolezze. Altro se si scoprirà sarà solo a conforto del reale volto del Nizzardo. Il Dittatore Ella sostiene fece la stessa fine dei viceré. Non è esattamente così. Mi spiego meglio. Professore ha ragione parzialmente quando afferma che il comportamento del DITTATORE (dunque non un libertador) voleva essere eguale e simile a quello dei vecchi viceré. Egli dunque non venne qui né per cercare il riscatto della Sicilia né tanto meno quello delle sue masse popolari. Più prosaicamente gli fu “subappaltato” un putsch antiborbonico, preparato, pianificato attentamente dai “servizi” inglesi e dai loro sodali piemontesi. Lui non fece dunque la stessa fine dei Viceré egli fu peggio di qualsivoglia Viceré. Fu un un “provocatore”, inviato a ingannare le energie sane che speravano di liberare la Sicilia dal giogo borbonico per restituirla alla sua Indipendenza nazionale. Ci scusi poi se non la seguiamo nel suo ragionamento quando Ella dopo aver ricordato la scomparsa di Ippolito Nievo, testualmente afferma: “Così finì una storia e ne cominciò un’altra o continuò quella di sempre, con le sue prerogative, i re Normanni, le glorie della Sicilia monarchica, l’autonomia e ora il federalismo. Cose che mi sembrano “interessate” sicilia-regione-default-120718100156_bigse pensiamo alla dimensione globale delle battaglie del nostro eroe.” Caro Professore, nel merito, le vorrei chiedere: Ci spieghi la continuità tra i poteri che Lei evoca, invoca e accomuna non Le sembra essere una facile generalizzazione che finisce per accostare dati diversi e con essi, cosa più grave, vittime e carnefici. Ad ognuno sono convinto, nel bene come nel male, vanno contestate, sempre e solo, le proprie, oggettive responsabilità. E certo non possiamo accusare il Popolo Siciliano, nella sua interezza, di essere immobile o immobilista. La verità è un’altra. Le elité legate al nuovo potere, piemontese e italiano poi, hanno loro concrete responsabilità che non possono certo essere così tranquillamente scaricate sul Costituzionalismo siciliano né sulla nostra tradizione statuale (allora in quasi tutto il mondo declinata nella forma monarchica). Quanto poi all’insinuante affermare che alla Sicilia rimasero le vecchie prerogative, abbia il coraggio, Professore, di scrivere e dire che le uniche prerogative mantenute dal nuovo padrone sabaudo, sino alla conquista nel 1946 dell’Autonomia Statutaria, furono quelle dell’impunità per i suoi sostenitori, per i picciotti di mafia al loro servizio e per i baroni italianizzati, cioè per quella categoria antropologica e parapolitica che Noi definiamo ASCARI. Mi permetta poi di contestare, fermamente quanto garbatamente, l’idea che festa repubblica.medium_300Garibaldi incarnerebbe il contraltare al particolarismo siciliano.
In conclusione credo davvero che la doppia pagina de “La Repubblica” – edizione di Palermo sia uno degli esempi più coerenti e paradigmatici di “negazionismo storico” e di “Conservatorismo politologico di marchio centralistico e di esclusivismo monoculturale che da anni mi è capitato di leggere”. Concludo queste mie contro-deduzioni dicendo che tra “il vento del nord” di nenniana memoria e “il vento avvelenato dell’indipendentismo” evocato nell’occhiello dell’intervento di Santino sta terzo e montante “Il vento della speranza” dell’Indipendentismo democratico, pacifista e antimafioso che offre finalmente una alternativa sociale e politica rispetto un “sistema” davvero triste sia che lo rappresentino certi autonomisti che certi centralisti di destra, centro o sinistra.” Sembra un discorso fatto al passato per i tempi andati ma qualcosa ci dice che tornano d’attualità per una visione di certo miope di una politica che non riesce a cogliere nel suo passato una sintesi culturale e civile e rapportarlo al presente e per proiettarlo nel futuro.

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Giustizia e politica

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

corte europea giustiziaLa crisi politica italiana degli anni Novanta sarebbe stata, probabilmente, ben più dolorosa e gravida di peggiori conseguenze se non fosse iniziata la stagione di mani pulite. Ad essa dobbiamo dire grazie se ci ha fatto dimenticare o accettare tale crisi dandole quella fiducia che si meritava. Ma la circostanza è stata di breve durata. Il perché lo sappiamo bene. La giustizia dei principi e della legalità ha finito con lo scontrarsi, inevitabilmente, con le grosse inefficienze del sistema giudiziario, sintetizzate dalle prescrizioni incombenti e dall’arretrato pauroso. Ad aggravare il tutto vi sono gli errori commessi dalla magistratura, tra gli inevitabili e quelli evitabili, che per motivi di “casta” non sempre è disposta a riconoscere. Vi si aggiunge la logica della contrapposizione che parte della politica e trasborda, a volte, negli altri poteri dello Stato. E’ una “modalità comportamentale” che coglie oramai ogni pretesto e finisce con il creare un intreccio perverso fra la dimensione tecnica dei problemi giudiziari ed il loro substrato politico. Alla fine i problemi invece di essere portati a soluzione si complicano ancora di più. E’ una spirale che va spezzata per abbassare le tensioni ancora forti fra giustizia e politica e lo si può fare in un solo modo rispettando le reciproche competenze e nel tenere alta la cultura della legalità. La verità è che non siamo riusciti a trovare per quel seme del passato, nel nostro presente ed ancor più per il nostro futuro il terreno fertile per farlo germinare. (Riccardo Alfonso direttore Centro studi sociali e politici della Fidest da “Lezioni di politica”)

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La civiltà della violenza

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

Nel dibattito politico si sta ora insinuando un’altra variabile che avremmo preferito volentieri fare a meno: la violenza, le sevizie, le torture. Molti si sorprendono di doverle nuovamente riesumare in quelle popolazioni che più delle altre sembrano aver acquistato quel tanto di civiltà giuridica da aborrirle e, ove si verificassero, da perseguirle con il massimo rigore. La verità è che in queste circostanze vale il detto evangelico: chi non ha peccato lanci per primo la pietra. Un attento osservatore dei comportamenti umani ci disse tempo addietro che la civiltà del progresso è ben lungi dal portarci anche l’abolizione delle violenze private e pubbliche. Esse, semmai, si possono affinare, con le torture psicologiche, con l’annientamento della personalità e per finire al mobbing. Siamo tutti, in un modo o nell’altro, vittime e carnefici nei confronti dei nostri simili e se non riusciamo a superare questo marchio che ci viene impresso dalla nascita in poi ben difficilmente ci sarà possibile diventare esseri umani nel senso civile ed etico della parola. Ecco perché queste torture così ben documentate fotograficamente che ci pervengono dalle carceri irachene, le violenze e le distruzioni in Siria dopo circa sei anni di guerra civile, e le violazioni delle libertà civili in Turchia, in Venezuela e in molti altri paesi non ci sorprendono più di tanto. Né ci suona altrettanto sorprendente lo stupore di chi oggi cerca di ammantare il tutto con un’alta dose di perbenismo propagandistico. E’ l’ipocrisia del sistema, delle persone e della stessa informazione che conosciamo bene e che oggi recita la sua parte come quella di tutti gli altri, del resto. Quante volte Amnesty International ed altri movimenti affini hanno denunciato soprusi e violenze un po’ ovunque nel mondo dentro e fuori le carceri, dentro e fuori i regimi autoritari, e quante altre volte le abbiamo accolte con una certa indifferenza, per non dire fastidio? E’ questo, dunque il prezzo, che dobbiamo continuare a pagare nonostante teniamo a definirci civili, democratici e rispettosi delle opinioni altrui? E finché andiamo avanti con queste spirali di violenze che nessuno sembra voler spezzare seriamente, la nostra civiltà continua a procedere con passo malfermo verso il suo futuro. E se in quel futuro continuerà ad esservi il male, le tecnologie potranno solo renderlo peggiore e perverso. (Riccardo Alfonso direttore Centro studi sociali e politici della Fidest da “Lezioni di politica”)

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Studiare la storia è un modo per riallacciarci al passato per comprendere meglio i fatti di allora e riflettere sul presente

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

ciofi-berlinguerCi siamo mai soffermati con la dovuta attenzione e riflessione su quel processo politico in atto in Italia durante la gestione politica della segreteria del PCI di Berlinguer? E’ stato un processo lento e contraddittorio, ma chiaro nei suoi obiettivi. Si voleva dare al partito dei comunisti italiani una sua evoluzione in termini nazionali e verso una socialdemocrazia di stampo occidentale e in netto contrasto con l’internazionale comunista. Tutto ciò avrebbe implicato l’accettazione della cultura liberal democratica, o per essere più precisi del costituzionalismo, liberal democratico. Una mossa indubbiamente interessante ma il risultato non lo è stato altrettanto perché si è voluto soltanto avviare un processo trasformistico con una rimozione pura e semplice del passato e che è sfociato in una sorta di democraticismo del tutto estraneo alle grandi democrazie liberali dell’occidente. In quel momento non avevamo bisogno, della “gioiosa macchina da guerra” secondo una infelice definizione di Occhetto perché in questo modo si voleva attribuire ai vincitori il ruolo di padroni dello Stato e delle sue istituzioni. In tal modo abbiamo di fatto impedito la nascita della seconda Repubblica con la necessaria chiarezza di intenti culturali e politici. Il resto è cronaca dei nostri giorni. Possiamo solo soggiungere che due sono state le occasioni perse da questa “macchina di guerra, pur gioiosa”. La prima con la sconfitta, sia pure ai punti, nelle elezioni politiche del 1994 ed ancora la vittoria a punti nelle successive elezioni ma che hanno visto la sua maggioranza lacerata all’interno e condannata all’ingovernabilità. Due occasioni mancate e sono francamente troppe nel giro di una manciata di anni. Vuol dire una sola cosa: errare è umano ma perseverare è diabolico e gli eventi di questi giorni continuano a dimostrarlo con un Partito Democratico che ha snaturato la sua radice di sinistra e che cavalca il populismo per motivi strumentali per poi rinnegarlo ad elezioni concluse. Non ci porterà da nessuna parte per una sola valida ragione: punta a vivacchiare e fare del potere uno strumento personale, a favorire interessi lobistici mentre le attese sono diverse non solo per vivere ma per fare del vissuto una reale e più autentica ragione di vita.(Riccardo Alfonso direttore Centro studi sociali e politici della Fidest da “Lezioni di politica”)

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L’arabismo occidentale

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

mediterraneoCi appare persino fin troppo chiaro che abbiamo affrontato il problema arabo con il passo sbagliato perché abbiamo voluto in qualche modo affermare un primato occidentale nei confronti di quei popoli che pur avendo, come gli arabi del vicino oriente, risorse energetiche notevoli per far camminare la macchina industriale dell’occidente, avrebbero potuto gestire al meglio le proprie risorse e ricavarci benefici sostanziali per i popoli interessati. E’ subentrata quella anomalia che cacciata dalla porta come il colonialismo è rientrata, come si sul dire, dalla finestra. E non solo. Sono proprio gli Stati Uniti, quelli che furono i più fieri oppositori del colonialismo praticato dagli europei nei confronti degli africani e degli asiatici, a rimettere in piedi questa vecchia e mai doma pratica sia pure ammantandola da logiche più tipicamente commerciali ed industriali. Si esportano le imprese per farle produrre con una manodopera a bassi costi e priva di oneri sociali. Si garantisce la tutela dell’ordine attraverso la presenza di governi fantoccio corrotti al punto giusto per trovare la loro convenienza a stare al gioco e a fare, all’occorrenza, il lavoro sporco per interposta persona come il perseguitare gli oppositori e stroncare le protese popolari con la violenza ed il genocidio. E su tutto e tutti prevale un primato ovvero quello di voler imporre con la forza l’interesse economico a vantaggio di pochi e non importa alcunché se a pagarne il prezzo più alto sono i soggetti più deboli ed i più emarginabili. Vecchi, bambini, donne e che vivono in aeree con povertà estrema perché prive di acqua, cibo ed assistenza sanitaria. E’ quello stesso popolo di disperati, si parla oggi di due milioni che premono alla frontiera libica per cercare dalle sue sponde di raggiungere l’Europa, che oggi l’Italia teme perché la considera una vera e propria “bomba demografica” e in un certo senso non ha torto, ma che il resto dell’Europa dei mercanti e dei mercenari guarda con indifferenza perché non è di frontiera. (Riccardo Alfonso direttore Centro studi sociali e politici della Fidest da “Lezioni di politica”)

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Un breve excursus della cronaca che si fa storia

Posted by fidest press agency su mercoledì, 16 agosto 2017

ludovico-muratoriAll’origine della storia gli unici elementi disponibili erano le “iscrizioni” murali in parte andate distrutte dal tempo ed altre, rimaste impresse, grazie alla particolare materia utilizzate che ha meglio conservato il graffito sino a noi. Nella Roma antica erano i Pontefici a tenere una sorta di “Registro degli avvenimenti politici importanti.” Ancor prima i greci si servirono dei “logografi” delle città joniche che ebbero la costanza di raccogliere informazioni di ogni genere del loro tempo e di quelli precedenti. Il materiale a loro disposizione non si limitava alla sola registrazione scritta, ma anche alla tradizione orale e sullo studio del mondo a loro immediatamente circostante. Il loro racconto (logos) fu raccolto dai contemporanei i quali tradussero in prosa la memoria popolare. Potremmo anche dire che è stata una prima manifestazione di “storia orale”. Dal Medio Evo sino al Rinascimento si pose mano alla cronaca sugli avvenimenti correnti e lo dobbiamo a varie fonti: la storia del convento, le testimonianze dei contemporanei, le collezioni di documenti e da altre fonti sia laiche sia confessionali. Ma la vera svolta storiografica la riscontriamo con Ludovico Muratori considerato il vero padre della storia critica in Italia. Dopo di lui si passò ad una vera e propria rivoluzione nella scienza storica. Essa, per l’appunto, divenne una scienza con l’affinamento del suo meccanismo di ricerca e con il recupero sistematico di quella parte del passato che era stata perduta nella fase episodica, religiosa, letteraria e retorica. Si è rotta la dicotomia tra storia dei fatti e storia delle idee. Siamo ora giunti alla storia raccontata quasi si trattasse di una autobiografia come quella dei diplomatici, dei nunzi apostolici della Chiesa di Roma o dei capi di Stato e di governo che hanno steso le loro memorie dando della storia vissuta una loro particolare visione.(Riccardo Alfonso direttore Centro studi sociali e politici della Fidest da “Lezioni di politica”)

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